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libri!

C’è un bar a Udine che non ha un listino prezzi. Il costo di un bicchiere o di una pastasciutta è discrezionale: dipende dal giorno della settimana, dal fatto che ci sia musica o meno, dalle simpatie dei gestori… non è ufficiale ma si sa. Continua a leggere

a riot of my own

Come avrà già notato chi è attento alla colonna di destra di questo blog, il 13 luglio parteciperò alla presentazione del romanzo A riot of my own a Udine, a cas*aupa dalle 19. Si parlerà degli anni ’70 in Friuli e del mondo dell’editoria. Io racconterò la mia esperienza con l’autopubblicazione e il mondo editoriale. Mi sono accorta di avere molte cose da dire su questo punto.

i miei libri

Oggi mi astengo da polemiche e filippiche 🙂 (ma so già cosa scriverò domani), per dire che ho deciso di vendere anche personalmente i miei libri, tramite questo blog, ora che credo di aver capito come ricevere pagamenti su paypal. Così potrò darli a meno: comprese spese di spedizione, 10 euro Dove si sta bene (romanzo), 12 euro La fuga e l’addio (romanzo), 5 euro La metafora dell’acqua (poesie – i link sono ad alcune pagine di anteprima). Se qualcuno li vuole può chiedermeli scrivendomi a gaiabaracetti@yahoo.com

editoria a pagamento, autopubblicazione e passaparola

Ero indecisa se affrontare questo argomento sul blog, perché mi sembrava troppo di nicchia, poi ho pensato che se a qualcuno non interessa può semplicemente non leggere, mentre altri potrebbero trovarci qualche spunto.
L’altro giorno sono venuta a conoscenza dell’esistenza di quello che potremmo chiamare un movimento d’opinione, la cui portata non so quantificare, che si schiera contro la cosiddetta ‘editoria a pagamento’. Secondo queste persone, tra cui ci sono anche figure di un certo peso come Sandrone Dazieri [quello che poi caldeggia e promuove Licia Troisi o questa cosa], e che arrivano a usare epiteti piuttosto pesanti e intraprendere serie azioni di boicottaggio contro chi pubblica le proprie opere pagando, epiteti e azioni che potrete trovare voi stessi sulla rete se l’argomento vi interessa, l’editoria a pagamento è sbagliata sostanzialmente perchè: non filtra la qualità, anzi pubblica un mare di schifezze che occupano spazio e disorientano il lettore, squalifica il lavoro di chi ha scritto, anche agli occhi di future case editrici ‘vere’, e abbassa la qualità generale dell’offerta letteraria. Inoltre, è ingiusto far pagare l’autore perché la casa editrice deve assumersi i ‘rischi d’impresa’.
Io ovviamente mi sento chiamata in causa, e voglio dire la mia. Innanzitutto, vorrei capire cosa si intende per editoria a pagamento. Una volta ho presentato la mia prima raccolta di poesie a un piccolo editore, che ha accettato di pubblicarla a patto che io partecipassi alle spese di stampa, mi impegnassi a vendere un certo numero di copie, e dessi a questa casa editrice l’esclusiva su tutto ciò che avrei scritto per un certo numero di anni futuri. Una proposta inaccettabile – anche se l’editore in questione si giustificava sostanzialmente così: ‘abbiamo creduto in [un poeta che poi è diventato molto famoso], ora lui pubblica e vende con una grossa casa editrice, noi ci siamo assunti i rischi e non abbiamo avuto nessun ritorno.’ Posso capire il desiderio di tutelarsi, ma a me la proposta di quest’editore sembrava svantaggiosissima, e ho rifiutato.
Quando ho poi scritto un romanzo e dovevo decidere che farne, un amico mi ha suggerito l’idea dell’autoproduzione, che in questo caso ha significato cercare una casa editrice ‘on-demand’, mandare la mia opera, pagare e vederla stampata (e recapitata a casa mia oltre che disponibile in vendita online). È importante notare che la casa editrice ‘on-demand’, oltre ad occuparsi di impaginazione e stampa, ha svolto un lavoro lungo e secondo me molto buono di correzione bozze e che, anche se nella versione finale qualche piccola svista è rimasta, molte di più sono state trovate e corrette. In caso di un’eventuale ristampa, correggerò questi pochi errori rimasti, e il testo del mio libro avrà la stessa qualità se non una qualità migliore, da questo punto di vista, di tanti altri testi pubblicati da case editrici non ‘a pagamento’. Quindi non è vero che queste case editrici, o per lo meno non questa che è l’unica di cui ho esperienza, pubblicano senza neanche leggere – probabilmente non rifiutano libri basandosi sulla qualità*, ma non è il loro compito: il loro compito è fornire un servizio a chi lo richiede. Per l’editing, che è appunto un servizio e va retribuito, ho pagato io anziché la casa editrice, ma bisogna ricordare, e questo è un punto fondamentale, che io avrò anche i guadagni delle vendite. Per quanto riguarda i libri che ho acquistato, rivendendoli mi sono tenuta la differenza tra il prezzo di copertina e il prezzo che io ho pagato per la stampa; per quelli venduti online prendo il 10%, che è una percentuale superiore a quella che prenderebbe un qualsiasi esordiente. E’ vero, la casa editrice a cui mi sono affidata non fa né promozione, né distribuzione se non su ordinazione – ma non ha mai detto che l’avrebbe fatto. Ben lungi da essere una fregatura, come sostengono molti, mi sembra un patto onesto – e ritenendo io i diritti sulla mia opera, posso recedere dall’accordo in qualsiasi momento.
E veniamo ora al punto fondamentale, quello della qualità letteraria e del ruolo delle case editrici. Forse si potrebbe credere che veramente le case editrici servano da garanti di qualità, ma visto a che punto siamo arrivati, si tratterebbe solo di un atto di fede. In un paese in cui le grosse case editrici spingono Moccia o Fabio Volo, e innumerevoli altre porcherie o mediocrità, perché qualcuno dovrebbe ancora credere che scelgano in base alla qualità e non solo per far soldi e vendere alla gente quello che le piace? Sicuramente, nell’immenso mare di case editrici piccole, medie e grandi, ce ne sono alcune che svolgono veramente un buon lavoro, ma io semplicemente non ho tempo di filtrarle tutte (sono troppe), sceglierne alcune, e passare anni che potrei passare a scrivere a bussare alle loro porte, per poi vedermi magari proporre un accordo come quello di cui sopra, limitante e svilente.
Perché, poi, dobbiamo lasciare a un’élite tutto sommato ristretta e autoreferenziale il monopolio di una delle cose più importanti in assoluto della nostra società, cioè quello che leggiamo? Non sono dentro all’ambiente, ma neanche del tutto fuori, perché mi ci sono affacciata e perché conosco bene persone che ci lavorano. So che gli esordienti solitamente non vengono letti, se non ‘conoscono qualcuno’ (lo so per esperienza diretta), ma vengono cestinati – e ho sentito anche di un racconto proposto, scartato, e poi stranamente ricomparso nella raccolta di una celebrità improvvisatasi scrittrice (non dò altri dettagli perché questa storia mi è stata solo raccontata, non ho motivo di dubitare della sua verità, ma prendetela più come esempio che come fatto). Si pubblica chi è nell’ambiente, chi ha fatto certe scuole, chi bazzica, chi conosce, e poi questi fortunati vengono spinti per bene, pubblicizzati e magari mandati in televisione: lo so per certo come sapeva Pasolini, se mi si concede di scomodarlo, non tanto perché ho le prove quanto perché sto attenta e colgo indizi e movimenti, e il mondo editoriale è così, mi fa abbastanza schifo, non merita il potere che ha, e io non vorrei affidargli le mie opere se posso fare altrimenti; purtroppo, e qui entro in contraddizione come mio solito, mi fido poco anche dei gusti del pubblico. Il pubblico, cioè la grande massa di lettori italiani, legge molto cose che io considero molto brutte; eppure, dovendo scegliere tra case editrici e lettori, preferisco lasciare il mio giudizio a questi ultimi.
Mi rimproverano tutti perché non promuovo abbastanza i miei libri, affidandomi a quel meccanismo imprevedibile, arbitrario e solitamente lento che è il passaparola. Però io penso: se il mio libro vale, non è certo ma è più che possibile che prima o poi verrà fuori, in virtù soltanto della sua stessa qualità. Ho una base iniziale, quelle circa duecento persone che hanno letto il mio primo romanzo perché mi conoscono, perché mi hanno incontrata e sono rimasti incuriositi, perchè qualcuno che mi conosce gliel’ha consigliato, o perché seguono il mio blog. Partendo da questa base, e forse da quei pochi che hanno visto i miei libri per caso (nonostante i giornali non ne parlino e le librerie a volte li lascino nascosti, fine della nota polemica), con una promozione iniziale necessaria ma minima, sono curiosa di vedere se mi leggeranno più persone, oppure il meccanismo si fermerà. Mi sembra comunque di fare affidamento su dinamiche non del tutto giuste e meritocratiche, ma sicuramente oneste e migliori di quelle a cui si ricorre di solito.
Siamo nel 2011, internet è una forza, non sempre ma spesso, democratizzante, anche nella cultura: lascia in mano ai singoli la possibilità di far emergere o stroncare un’opera, di farsi conoscere con pochi mezzi e facendo affidamento sulla qualità e non sulla visibilità, toglie dalle mani dei grandi gruppi, che siano editoriali, mediatici, imprenditoriali, politici o tutte le cose assieme, il monopolio di quello che leggiamo o sappiamo: perché non approfittarne anche nell’editoria? Certo, certi ‘poteri forti’ rimarranno prevalenti, ma la crociata contro chi vuole fare da sè e affida agli altri (al mercato, in pratica) il giudizio su quello che scrive mi sembra del tutto una perdita di tempo e di energie, inutile o controproducente, e anche un po’ cattiva – peggio ancora, quando è calata da gente che si fa promotrice di schifezze o il cui lavoro non è certo perfetto – a certi mi viene da dire: ma tu ti sei letto? ma da che pulpito…?
Ormai in quasi nessun campo la marca è più garanzia di qualità, salvo poche eccezioni, e nemmeno nell’editoria; l’artigianato sta invece prendendo di nuovo piede perchè ristabilisce il contatto umano e premia la creatività del singolo. Io penso che l’autoproduzione letteraria sia una forma di artigianato, penso che i vecchi filtri non funzionino più, e le vecchie garanzie di qualità e di verità non siano più credibili: tentare qualcosa di nuovo mi sembra non una vergogna, ma un esperimento interessante.

* loro sostengono di leggere e valutare i libri che pubblicano; sul quanto sia severa la selezione, a ciascuno il suo giudizio

stare dove si sta bene

Io ho scelto di stare qui, in Italia e in Friuli, e non sto ancora cambiando idea. E’ una scelta che lascia perplessi – l’obiezione più comune e banale è: non ti senti stretta? Una che ha girato il mondo, come te… la risposta a questa domanda l’ho già data (no, e se mi sento stretta sto poco ad allargare).
La seconda obiezione me la faccio ogni tanto io stessa: è giusto, date le diseguaglianze globali, le emergenze umanitarie, le tragedie di massa che si consumano nel mondo, starsene belli comodi in una delle regioni più ricche del pianeta, senza fame e senza guerre? Non avrei forse il dovere di uscire da qui e contribuire alla risoluzione dei grandi problemi dell’umanità? Stare al computer a scrivere mentre centinaia di persone ancora annegano nel nostro mare, per raggiungerci, non è mostruoso? Non sono forse come il ricco Epulone che mangia mentre Lazzaro lecca le briciole sotto al suo tavolo?
Io ho studiato cooperazione allo sviluppo – quando lo dico, la gente mi guarda perplessa: e cos’è? Non è una disciplina, è un tema, una domanda, e al momento forse la più importante che ci sia, almeno se si guarda oltre il proprio orticello. Un tema che ne attraversa tanti altri – la giustizia, la solidarietà, la libertà, il rapporto tra culture, tra generi, tra esseri umani e ambiente, il peso della storia e i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri…
Con la mia laurea adesso dovrei essere a lavorare in Africa, in Asia, o in qualche centro di potere internazionale. Una cosa però di cui mi sono resa conto, studiando, è che, dato che viviamo in un mondo di risorse limitate, cercare di eliminare la povertà non basta: bisogna anche trovare il modo di ridurre i consumi dei ricchi. Restare in uno dei luoghi di maggior benessere al mondo, cercare di far capire questo e di convincere la gente a cambiare stile di vita, mi sembra uno degli obbiettivi migliori che ci possano essere. Se faremo le cose bene libereremo risorse per gli altri, sperimenteremo stili di vita nuovi, daremo il buon esempio a chi ci vorrà venire a trovare, accoglieremo chi è in difficoltà. Senza uscire e andare a dire agli altri cosa devono fare.
C’è un altro motivo poi, più profondo. Il Friuli ha problemi, ma non grossi, quasi mai tragici. C’è pace, c’è da mangiare per tutti, bene o male un lavoro si trova, l’aspettativa di vita è alta, ci sono divertimenti e ancora abbastanza spazi naturali in cui cercare rifugio, anche se sempre più rovinati. Ci sono cause per cui combattere, soprattutto quelle ambientali, ultimamente, ma nessuna vera catastrofe all’orizzonte, o per lo meno nessuna che possiamo vedere.
Eppure non per questo la gente è felice. Tanti stanno bene, tanti si sentono frustrati, incompresi, annoiati; i giovani vogliono andare via, gli adulti sono esauriti, i vecchi isterici. Perché? E’ per questo che la gente è emigrata ed è morta, per costruire un mondo perfetto che non va bene lo stesso?
Cosa rimane, della nostra vita, quando le difficoltà materiali non ci sono più, quando non viviamo il dramma della guerra, quando non c’è un nemico, non c’è un pericolo, su cui concentrare la nostra attenzione? Diventiamo egoisti, al punto che l’idea di far venire qui pochi immigrati cui dare una mano ci sembra chissà quale rinuncia? Diventiamo apatici, perché la posta in gioco è noiosamente bassa? Diventiamo ossessionati dalle vite private, dalla famiglia come unico valore rimasto, dal bisogno di innamorarci o di evadere, perché non c’è nient’altro a emozionarci? Sublimiamo con lo sport? Ci appassioniamo ai pettegolezzi e al trash? Ci diamo all’arte? Ci inventiamo cause inesistenti per cui lottare? Finiamo a guardare il mare o le vette, cercando un’estasi, un contatto con il divino? Oppure alla fin fine il conflitto e la tragedia sono necessari per una vita vera? E’ nell’assenza di ogni costrizione materiale che si può osservare al meglio la condizione umana, o nella lotta per la sopravvivenza?
Queste mi sembrano domande molto interessanti. E’ per questo che sto qui e scrivo libri, nel mio piccolo.

Mercatino cas*aupa

Domani porterò le ultime copie rimaste del mio romanzo, se a qualcuno interessa, al mercatino di Cas*Aupa (via Val D’Aupa 2, Udine). Ci saranno artigiani con le loro creazioni, e anche dell’usato a quanto pare. Io sarò lì con i miei libri a dieci euro. A partire dalle 14.30.

geografia

Ero in Veneto, l’altro giorno, in provincia di Treviso. Verso il Veneto nutro sentimenti contrastanti, riassunti in quell’unica giornata credo, e in quello che ho visto e ricordo: il benessere diffuso che però non basta mai, l’ospitalità, il buon vino e il troppo buon vino, il dialetto con le sue mille varianti, che è arrivato e rimasto così lontano da Venezia (pensate all’Istria), e il leghismo, i mega centri commerciali claustrofobici seminati in una pianura orrenda, e uno scorcio di campagna così bello che mentre dietro di me continua la festa, io sto lì per ore a osservarlo – i campi nelle varie stagioni, le proporzioni tra gli alberi, la casa contadina, l’arco del sole, il tramonto estivo, le stelle di notte, i colori autunnali, le nebbie di novembre… incredibile quanto possa cambiare un solo pezzo di terra. Città bellissime, periferie squallide, montagne spettacolari, eleganti ville venete, brutte villette nuove a non finire – il Veneto per me è splendido e orribile, simpatico e antipatico, poi uno potrebbe dirmi che è praticamente la stessa cosa del Friuli, ma noi siamo più piccoli e ispidi, più buffi e meno influenti, agli occhi del resto d’Italia dico, siamo più sconosciuti.

Il Veneto è sott’acqua, io ci credo che è colpa dell’urbanizzazione selvaggia, del desiderio di vivere dove ci pare e comunque più lontano possibile dagli altri, zona a rischio o no chi se ne frega, comunque lascio la parola a Gianni Belloni di Carta (Carta è in crisi, come le migliori testate italiane, pare che meglio fai giornalismo, meno gente ti caga e meno soldi hai). “Un’ondata di ragionevolezza” è il titolo dell’articolo. Si parla di pressione antropica, e io ripeto la domanda che ripeterò sempre: quanta gente può vivere in Veneto? Non parlo di limiti massimi, quante persone ci possono stare fisicamente, semmai: non sarebbe il caso che la popolazione smetta di crescere e invadere tutto, e che la si pianti di costruire, costruire, costruire, così da poter vivere tutti in bellezza e sicurezza? Io sinceramente ogni volta (spesso) che sento parlare di un nuovo progetto insediativo/stradale/commerciale/infrastrutturale in Veneto, mi chiedo: ma perché, c’è ancora spazio libero? Dove sarebbe quest’area delicatissima da non toccare visto che io ogni volta che ci passo vedo già tutto costruito?? L’articolo parla anche di lottizzazioni, e a me viene in mente quello scorcio bellissimo di campagna che mi piace contemplare, che alla fine è stato venduto perché ci si possa costruire sopra. Mi sento male ogni volta che ci penso, e non è neanche casa mia.

Spinoza comunque sul Veneto sott’acqua come al solito ci fa dell’ottima satira

Invece il Nuovo ha pubblicato una bella recensione del mio libro -la consiglio, a chi interessa, perché secondo me sottolinea degli aspetti importanti di quello che ho scritto e volevo dire, però se siete come me, cioè vi piace leggere i libri senza sapere di cosa parlano (io mi affido ad una combinazione semicosciente di sentito-parlare, status di classico, fiducia nello scrittore o in chi me lo consiglia, necessità insopprimibile di leggere proprio quel libro…), allora è meglio che la leggiate dopo. Il Nuovo comunque è un ottimo giornale, e non lo dico perché ci collaboro, ma perché ha un modo di raccontare la nostra regione, anche nei suoi aspetti meno noti, più di lungo respiro, che mi affascina e mi fa sempre scoprire qualcosa di nuovo.

cose che si fanno insieme

Lo so, l’Università di Udine e non solo quella rischia di chiudere, rischia di chiudere anche Il Manifesto, per dire, e tutti i media che preferisco o con cui ho collaborato sono in cattive acque economiche (di solito per colpa di tagli ai finanziamenti, mentre si spengono allegramente soldi pubblici in corruzione e puttanate, ma non serve che ve lo dica io). E questo per restare nel mio: al di là di università e media con l’acqua alla gola, il paese va comunque, tuttora, a rotoli.

E io non ho niente di meglio a cui pensare che il mio libro? E’ che credo veramente di riuscire a fare qualcosa scrivendo. E così mi giustifico per l’ennesimo annuncio in proposito: adesso il mio romanzo è in vendita anche a Cas*Aupa in Via Val d’Aupa 2 a Udine. Cas*Aupa è un posto strano, che ogni qualche mese cambia, cambiano i colori, lo stile, le attività e un po’ le persone, poi alcune tornano, altre no lasciando davvero un vuoto, e ormai ad andare lì mi viene addirittura una certa malinconia, perché è così legato a momenti cruciali della mia vita degli ultimi tre anni. Quindi sono contenta che abbiano il mio libro.

Poi, è partita nel silenzio generale la sperimentazione della Linea 1: estendere il servizio in Via Colugna anche le sere e i festivi. A quanto mi risulta, il comune non ha mantenuto la promessa di pubblicizzare la cosa, quindi nel mio piccolo lo faccio io. Un’altra cosa che farò è sedermici sopra per la durata di un biglietto (un’ora), allo scopo di fare numero così che la sperimentazione diventi un servizio stabile. E poi giro questa iniziativa, io non ci sono perché lavoro, ma spero qualcuno possa partecipare.

INIZIATIVA “SCOPRIAMO LA CITTA’ CON LA LINEA 1”

Udine raccontata dal bus, anche per ridurre l’inquinamento atmosferico.

Comunicato stampa: manifestazione organizzata dal comitato Pro Autobus Linea 1 e dalle associazioni ambientaliste WWF, Legambiente, ItaliaNostra, Cordicom  e ALPI a favore dell’utilizzo dell’autobus e del prolungamento dell’orario serale e festivo della linea 1.

Per la mattinata di domenica 31 ottobre le associazioni ambientaliste WWF, Legambiente, ItaliaNostra, Cordicom  e ALPI insieme al comitato Pro Autobus Linea 1 e con la collaborazione della SAF organizzano una visita guidata della città di Udine, piuttosto insolita: grazie al contributo dell’architetto Giorgio Ganis sarà possibile esplorare le curiosità storiche e urbanistiche della città viaggiando sull’autobus della linea 1, con lo sguardo di chi quotidianamente utilizza il bus. Il concentramento è previsto per le ore 10.15 presso il parcheggio Scambiatore presso via Chiusaforte , capolinea della linea 1, ed il viaggio seguirà il percorso Parcheggio Scambiatore-Stazione Ferroviaria per poi ritornare al punto di partenza. Alle 12.00 seguirà una breve presentazione di quella che è il nuovo servizio attivato dalla SAF in via sperimentale: il prolungamento serale e festivo della linea 1 per un periodo di 3 mesi (fino al 9 gennaio) come richiesto da numerosi cittadini che hanno sottoscritto l’appello per incrementare il servizio completando il circuito attorno all’ospedale (via Chiusaforte, via Colugna e via Santa Maria Crocifissa di Rosa).  A conclusione  è previsto un brindisi.

Con tale iniziativa le associazioni ambientaliste insieme al comitato intendono esprimere la soddisfazione per l’accoglimento della richiesta di prolungamento del servizio in via sperimentale e invitare i cittadini a ridurre l’uso delle auto private a favore dei mezzi pubblici. Nella consapevolezza che Udine diventi sempre più una città europea, in cui i quartieri periferici vengono valorizzati potenziandone i servizi rivolti alla comunità.

Associazioni ambientaliste WWF, Legambiente, ItaliaNostra, Cordicom  e ALPI

Comitato Pro Autobus Linea 1

Sabato mattina a Radio Onde Furlane

Sabato 16, la mattina dalle 9.35, parlerò del mio libro con Mauro Missana su Radio Onde Furlane. Se volete si può ascoltare sui 90 mhz, o su Internet qui.

avere scritto un libro

Ho deciso di pubblicare il mio romanzo da sola perché volevo avere il controllo totale della mia opera. Volevo che uscisse prima possibile, perché non sopportavo di dover aspettare un solo giorno in più, lasciando il libro nel limbo della scrivania di chissà chi; volevo che nessuno mi cambiasse nemmeno una virgola, se non per correggere un errore; volevo scegliere la copertina, la quarta di copertina, tutto. Volevo ritenerne i diritti, non mi sembrava giusto doverli cedere. Quel libro doveva essere mio in tutto e per tutto, perché l’avevo scritto io, in pochi mesi, in uno stato di estasi e dedizione assolute, perché volevo e perché dovevo, una combinazione di volontà e necessità e trasporto ossessivo che già di per sé mi sembrava avesse del miracoloso.

Fin qui, ho avuto quello che volevo. Ho scritto di testa mia, ho pagato di tasca mia, ho commissionato la copertina ad un amico (grazie Pola), e, a parte il fatto che la sfumatura è uscita un po’ più verdina del previsto, ho avuto in mano il libro esattamente come l’avevo pensato. Non volevo la trama in quarta di copertina, perché ho sempre odiato chi la svela, e non c’era la trama. Non volevo mettere note biografiche, e non le ho messe. Era totalmente il mio libro. Una soddisfazione enorme, un orgoglio, una vittoria. E non avrei dovuto affidarlo a quella grande macchina le cui intenzioni e meccanismi mi ispirano tanta diffidenza, che è la distribuzione -ci avrei pensato io.

Il problema è che non basta scrivere un romanzo, bisogna far sì che la gente lo legga, bisogna venderlo. Qui sono entrata in crisi. Cosa significa commercializzare un libro? Un romanzo è un messaggio, e come puoi vendere un messaggio? So che è una domanda assurda, i libri, i quadri, la musica, si comprano e si vendono e si commissionano e si pagano, c’è gente che di mestiere fa questo, gente che studia questo, solo perché io non lo capisco non posso negare il diritto stesso ad esistere del mercato culturale. Inoltre, scrivere è un lavoro, non un hobby, e per i lavori uno vuole essere pagato.

Così ho iniziato ad analizzare i miei stessi meccanismi di lettura ed acquisto: come compro i libri, io? Per passaparola, o perché sono dei classici (non mi fido delle nuove uscite o dei bestseller del momento o delle recensioni leccacule, mi sembra tutto manovrato). Ma il mio libro non è un classico, e il passaparola funziona come vuole lui -quindi?

E poi essere dall’altra parte è un’altra cosa. A meno che non si sia lettori ossessivi come me, o che si tratti di libri di culto, raramente per chi legge il libro significa tanto come per chi scrive.

Forse bisogna provare per capire, o forse io entro in crisi perché sono confusa o perché non sono capace o perché provo una diffidenza viscerale nei confronti di tutto ciò che è marketing, pubblicità, commercio, mi sembra solo manipolazione e non voglio entrarci… penso: cosa deve fare ancora il mio libro, oltre ad esistere? C’è, e tanto basta, perché ci si aspetta che io faccia altro? Convincere una persona a comprare il mio libro mi sembra come cercare di convincerla a volermi bene: se deve succedere, succederà perché le verrà spontaneo.

Questo libro è come un figlio, e, amandolo di un amore quasi ottuso e incondizionato, vorrei che tutti ci vedessero quello che ci vedo io. Vorrei che cogliessero il simbolismo di cui l’ho riempito, e nessuno l’ha colto. Vorrei che i lettori capissero quello che voglio dire, che pensassero alle cose a cui io chiedo loro di pensare, ma mi accorgo già che ognuno ci cerca sé stesso o la propria storia o i propri interessi, o al limite me e le mie storie e fissazioni. Non ho cambiato la vita di nessuno. Il messaggio non è arrivato. E’ presuntuoso aspettarsi che il tuo libro cambi la vita di qualcuno, lo so. Ma per quale altro motivo, se non questo, dovresti scrivere? “Scrivi bene”, mi dicono, vabbè. E poi magari fanno qualche commento su quella cosa o quell’altra che li ha colpiti, o dicono qualcosa di generico: molto ironico, bello, brava, cose anche che fanno piacere, ma mentre parlano io faccio quasi fatica a lasciarli dire altro, come se fossi in imbarazzo o percepissi il vuoto nelle loro parole, sentissi che non ci siamo, allora voglio spiegare io il mio libro, decifrarlo, dare le chiavi che non hanno trovato, sottolineare i particolari che gli sono sfuggiti… come una stupida madre qualunque che crede di avere il bambino più speciale del mondo, e la mena a tutti in continuazione, e invece è solo un cazzo di bambino come gli altri.

Non posso entrare in un discorso su cosa significhi l’arte, sicuramente ogni artista o sedicente tale la intepreta a modo suo. Ho degli amici che sono musicisti, e dicono di non voler parlare di musica. Suonano, e basta. Forse anch’io dovrei scrivere, e basta. E quasi ho paura di vedere cosa ne è di quello che scrivo. Se io scavo, ricordo, mi esalto, mi prendo male, mi spremo, indago, piango, tutto questo per scrivere, e poi non riesco non dico a toccare chi legge, perché per toccare tocchi di sicuro, ma a far sì che vedano le cose un po’ come le vedo io, che si pongano le domande che mi sono posta io, che la loro visione del mondo cambi un po’, anzi, se poi non riesco a sapere se fanno tutto questo, ma mi sembra di no, non ora, non loro, magari un giorno qualcuno, o forse sono io che non mi sono spiegata… bah. Ho la netta sensazione di peccare di ingenuità o presunzione, ma non capisco esattamente quale delle due e in quale punto.

In tutto ciò, ho perso la voglia di vendere il libro. Ho solo voglia di scriverne un altro, scrivere ancora, spiegarmi meglio.