7 – Ci sono delle alternative

Questo è l’ultimo capitolo (yeee!). Ci ho messo tantissimo tempo a scrivere tutto; spero che l’abbiate trovato istruttivo e interessante. Per chi arriva adesso, ecco dei comodi link alle parti 1, 2, 3, 4, 5 e 6. Se trovate errori segnalateli pure; sto pensando di fare un libretto perché voglio provare a convincere i decisori ma vediamo se sarà fattibile.

Questa parte è lunga, ma non sono riuscita a tagliare più di così. Se il tema vi interessa prendetevi pure il tempo che vi serve per leggere, un pezzo alla volta, riponete fiducia nel fatto che io abbia ritenuto ogni parola qui sotto necessaria per esporre il mio pensiero.Se vi ci vorranno giorni, ne riparleremo tra qualche giorno – tanto questa quarantena collettiva mi sa che va per le lunghe.

Ringrazio un’ulteriore volta coloro che, sostenendo economicamente questo blog, hanno fatto sì che potessi sedermi davanti al computer e passare ore a fare ricerche, scrivere e correggere, con tranquillità. Siamo tutti un po’ tesi riguardo alle nostre prospettive economiche, ultimamente.

Criticare è facile, in Italia poi è uno sport nazionale: siamo tutti bravissimi a dire cosa c’è che non va (di solito quello che non va è quello in cui facciamo diversamente dalla Germania). Esporsi con proposte alternative, però, è più difficile e più rischioso. Nessuna soluzione ha solo aspetti positivi e nessuna controindicazione; qualsiasi riforma scontenta o danneggia qualcuno. La politica e l’economia servono per mettere ordine e stabilire priorità tra interessi contrapposti nella maniera più equa e condivisa possibile, non per fare miracoli. In questo ultimo capitolo farò alcune proposte di riforma, sapendo che potrebbero creare problemi a loro volta; magari questi problemi però sarebbero inferiori agli attuali e ai vantaggi di un cambiamento.

Supponiamo, allora, che siate stati convinti: i contributi all’agricoltura sono una schifezza e vanno aboliti. Farlo all’improvviso, però, senza fare nient’altro, avrebbe un impatto disastroso. Come un drogato deve essere assistito nella sua disintossicazione, così l’agricoltura dipendente dai contributi ha bisogno di politiche diverse per diventare più sana e indipendente.

Per trattare gli agricoltori in modo equo senza creare distorsioni bisogna innanzitutto affrontare due temi fondamentali: quello della globalizzazione e quello della disponibilità di terra.

Non è possibile pensare di avere una politica agricola senza avere anche una politica sul commercio internazionale. Per fare solo un paio di esempi, in America Latina si distrugge la foresta amazzonica per produrre soia e carne; in Indonesia si taglia la foresta del Borneo, con conseguenze disastrose per il clima e per gli animali che ci vivono, per produrre olio di palma che poi arriva in Italia per essere usato, tra le altre cose, come biocarburante (che ridere: ci sono contributi anche per questo!) In Cina si costruiscono allevamenti sempre più intensivi (siamo ai palazzi) per allevare maiali che poi arrivano anche in Italia; negli Stati Uniti ci sono gli OGM e il famoso “pollo al cloro”, le rose africane avvelenano chi le coltiva, eccetera eccetera. Non si possono esporre i nostri agricoltori alla concorrenza di merci che sono più economiche perché sono prodotte a condizioni inaccettabili per l’ambiente e per i lavoratori, spesso entrambi. Al tempo stesso, gli agricoltori europei, che ricevono contributi per sovrapprodurre, sono stati accusati di scaricare beni agricoli a basso prezzo sui mercati dei paesi poveri rovinando le economie locali (il cosiddetto “dumping”).

C’è chi pensa che tutto questo sia governabile a livello mondiale e che “chiudersi” sia sbagliato. Io non sono d’accordo. Stati più potenti possono imporre la propria volontà sui più piccoli o deboli; all’interno degli stessi stati o blocchi, le lobby che hanno maggiore accesso alle stanze del potere influenzano la politica in una direzione che non necessariamente è nell’interesse comune (per un esempio recente, guardatevi la puntata di Presa Diretta sulle api: alla fine persino Iacona deve dire: ok, lasciamo stare l’Europa, l’Italia cosa può fare?). Basta vedere come vengono continuamente firmati accordi di libero scambio senza chiedere niente a nessuno, e quando qualcuno se ne accorge gli viene risposto che è nell’interesse di tutti vendere prosciutto ai canadesi e in cambio importare grano trattato chimicamente dal Manitoba, senza che sia mai chiaro perché non possiamo semplicemente mangiarci noi il nostro prosciutto e il nostro grano e i canadesi i loro.

Il problema della globalizzazione è che ha tolto il potere agli stati e ai livelli di potere intermedi per darlo a multinazionali e a organismi internazionali che in teoria sono democratici, ma in pratica sono troppo distanti dal singolo cittadino o dalle organizzazioni che è in grado di formare perché il parere dei piccoli conti qualcosa. Non demonizzo qualsiasi accordo di scambio e di rimozione delle tariffe, ma nel momento in cui questi accordi diventano irreversibili il potere dei cittadini tramite i loro rappresentanti di proteggersi o cambiare idea è irrevocabilmente perso.

Ultimamente, l’Unione Europea sta trattando accordi di libero scambio con il Mercosur, il che significherà in pratica spalancare le porte alla carne prodotta con la distruzione della foresta amazzonica e di altri insostituibili habitat. I produttori europei non possono essere costretti a competere con chi distrugge il proprio ambiente per produrre – al tempo stesso, però, i paesi europei dovrebbero preoccuparsi di ripristinare i propri ambienti selvatici distrutti, anziché limitarsi a impicciarsi di quelli degli altri.

I contributi, in parte, esistono come risarcimento agli agricoltori per la concorrenza a cui si sono ritrovati esposti. Il latte non vale più niente sul mercato, perché arriva quello dell’Europa centrale o dell’Est che costa meno (curiosamente, ho sentito una donna rumena lamentarsi che non poteva consumare latticini del suo paese perché nei supermercati c’erano solo quelli italiani… indovinate chi ci guadagna in questo sistema? I grandi produttori a discapito dei piccoli, e questo è il senso di tutta la faccenda – e allora vai con i tir che portano il latte di A a B e il latte di B a A, e inquinamento, incidenti, ponti che crollano, altro asfalto, però vedi che Pil che fa…). Il grano italiano, abbiamo detto, deve competere con quello canadese, la soia viene dalle Americhe, gli agnelli e i kiwi dalla Nuova Zelanda, le noci dalla California, le patate dall’Olanda, l’olio dalla Grecia e dalla Tunisia… Eppure siamo ancora qui a parlare dell’esportazione del “made in Italy” (solitamente il cibo più industriale, perché i piccoli produttori artigianali difficilmente arrivano ad avere quantitativi e infrastrutture sufficienti ad esportare), di allargare i porti, di costruire infrastrutture per il commercio internazionale, senza mai fermarsi a riflettere su che razza di roba esce ed entra. E se un contadino si accorge che la merce con cui compete è inferiore alla sua ma nessuno lo sa, gli si chiude la bocca coi soldi: prenditi questi contributi e non lamentarti!

(Oppure deve mettersi a fare il consorzio, il DOP, il DOCG, questo marchio, questo certificato, questa etichetta, questa campagna di marketing, così, siamo sempre alle solite, da dar da mangiare a gente che non produce niente ma sa gestire queste faccende presentate come indispensabili)

La questione, poi, non è neanche così semplice, perché i contributi servono sia a zittire i piccoli che ad aiutare i grandi a compensare le importazioni obbligate con esportazioni, anche se l’ambiente ci rimette, perché spostare il cibo inquina, e se tutto questo si riduce in una corsa al ribasso. Se si vogliono togliere i contributi, tutto il sistema va rivisto, e bisogna garantire ai produttori a cui si chiede di non inquinare o sfruttare animali e persone che non saranno penalizzati per questo dalla concorrenza di chi invece lo fa.

Senza rimettere in mano agli stati e alle regioni la politica commerciale questo è impossibile. Appena si prova a mettere un dazio o imporre un requisito su un prodotto che si vuole controllare si rischia di venir trascinati in tribunale da una multinazionale o uno stato estero che ha più potere del proprio. Senza la libertà di decidere la propria politica commerciale si è di fatto impotenti in tutti i campi dell’economia.

Per garantire a chi produce cibo un guadagno sufficiente a proseguire l’attività, comunque, in assenza di contributi, è necessario che i prezzi del cibo salgano. Perché i prezzi del cibo possano salire senza subire la concorrenza di merci a buon mercato provenienti dall’estero, sono necessarie politiche protezionistiche. A chi obietterà che questo danneggia i consumatori, si potrà rispondere che innanzitutto così smetteranno di sprecare così tanto cibo, e che comunque è meglio pagare il cibo nel momento in cui lo si compra e nella quantità che serve che pagare il cibo prodotto, anche se non lo si mangia, con le tasse. L’abolizione dei contributi all’agricoltura deve tradursi in minori tasse per tutti, così da compensare l’aumento dei prezzi. Un altro modo per incentivare il consumo locale è smetterla di agevolare, con contributi al combustibile e infrastrutture pagate da tutti, il trasporto di merci oltre ogni necessità.

Per inciso, quando espongo le mie tesi sui contributi ad allevatori o agricoltori, inizialmente tutti mi dicono: “sei pazza”, e poi subito dopo mi danno ragione, come se stessi esponendo una cosa del tutto ovvia che nessuno ha più nemmeno il coraggio di pensare. E devo ancora incontrare un allevatore o agricoltore che non preferirebbe ricevere un prezzo onesto per i suoi prodotti e non ricevere contributi.

Un altro motivo per cui esistono i contributi, se non altro indirettamente, è per nascondere il fatto che la terra disponibile in molti paesi europei non è sufficiente nemmeno a sfamare gli abitanti di quel paese. Se l’agricoltura fosse redditizia, non ci sarebbe bisogno di sostenere gli agricoltori con pagamenti; si manterrebbero da soli. Questo è particolarmente evidente nel caso dell’agricoltura e allevamento nelle aree marginali, ma vale anche per i paesi nel loro complesso.

Non molto tempo fa, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali ha dichiarato che l’Italia è in grado di produrre solo l’80% del cibo che consuma. Il resto, quindi, è importato, come negli esempi che ho fatto sopra. Tra l’altro anche il combustibile che alimenta mezzi e macchinari per produrre, lavorare e trasportare il cibo è quasi totalmente importato – una volta si usavano le risorse locali, e quello straordinario combustibile, anch’esso oggi quasi rifiuto, quella meraviglia dell’incontro tra natura e uomo che è il fieno.

Se non ci credete, proviamo a fare due conti: in Italia ci sono 302 072,84 chilometri quadrati di territorio, quindi circa trenta milioni di ettari, e 60 243 406 persone. Questo significa che ogni italiano ha a disposizione mezzo ettaro in tutto.

Se vi aiuta a visualizzarlo, un ettaro sono diecimila metri quadri, un po’ più di un campo da calcio. Lo spazio, ovviamente, a differenza persino del petrolio, è l’unica risorsa che non è sostituibile né espandibile in nessun modo, perché la Terra quella è e quella resta (anzi: con i mari che si alzano, lo spazio semmai sta diminuendo).

Su quante persone possa sfamare un ettaro ci sono stime molto variabili: dipende da che terra è, come la coltiviamo, quanto vogliamo che resti fertile nel tempo e cosa vogliamo mangiare. Una stima media che si sente spesso è quattro persone per ettaro, quindi un quarto di ettaro a testa, e parliamo di terre fertili con un buon clima per l’agricoltura e sufficiente disponibilità di acqua. Nel mezzo ettaro disponibile a testa in media in Italia, però, dobbiamo includere tutto, non solo il terreni agricoli per la produzione di cibo: quindi le aree che non sono coltivabili perché occupate da fiumi, spiagge o montagne, o troppo aride o pietrose, quelle coltivate ma non per la produzione di cibo, ad esempio per tessuti, biocarburanti, legna da ardere o per la carta o per i mobili, quelle che servono per le case e i giardini privati, le scuole, gli ospedali, le strade, i parcheggi, le stazioni, le cave e i pozzi, le aree verdi, gli spazi ricreativi e sportivi, le fabbriche, i magazzini, i laboratori, i negozi, i musei…. mi sembra abbastanza evidente che, con tutti questi usi che competono con quello agricolo, non c’è terra per sfamare tutti, neanche se fossimo dal primo all’ultimo monaci vegani. E questo senza includere il piccolo particolare che non siamo gli unici abitanti del pianeta e che dobbiamo lasciare anche alle altre specie lo spazio per vivere.

Siccome c’è poca terra bisogna intensificare la produzione anche a discapito della sostenibilità, per esempio tenendo più animali di quanti la terra potrebbe sfamare e alimentandoli con mangimi anziché pascolo, e sostenere artificialmente aziende troppo piccole per sostenersi da sè, ma che non troverebbero spazio per allargarsi. L’agricoltura moderna è sì più produttiva, ma solo perché dispone di input esterni che non sono nè ambientalmente sostenibili nè disponibili all’infinito. E poi costano. Il ricorso a questi input è facilitato dai contributi: lo stato paga agli agricoltori, direttamente o indirettamente, tutto quello che serve per produrre di più in meno spazio, come i mangimi, il diesel agricolo, i concimi di sintesi… Sono tutte cose importate. E come fa l’Italia a permettersele, cosa dà in cambio? Prima, esportava beni industriali, ma adesso che la concorrenza dell’industria emergente in paesi prima agricoli ci sta facendo chiudere una fabbrica dopo l’altra, siamo ridotti a sperare nel turismo perché non abbiamo più nient’altro. Ma il turismo è un settore fragile, perché la competizione è tanta e comunque quello che vende non è indispensabile: con il Coronavirus ci siamo accorti che i cinesi non vengono perché hanno altro a cui pensare e nessun altro prende il loro posto perché adesso gli appestati siamo noi – si chiedono aiuti per il settore turistico, ma tra aiuti all’industria, all’agricoltura, al turismo, dove li troviamo tutti questi soldi se non produciamo più niente? Quale dovrebbe essere il settore produttivo che sostiene tutti gli altri, se contraiamo l’agricoltura, svendiamo l’industria, e perdiamo il turismo (e non abbiamo materie prime, che comunque prima o poi finiscono)? Pensiamo di mantenere sessanta milioni di persone con la moda e il design (tra l’altro venduti a stranieri pure quelli)?

Infatti facciamo altro debito. Non vi chiedo: quanto possiamo andare avanti?, vi dico solo: guardate la Grecia.

Forse sarebbe meglio ripensare all’agricoltura, liberando un po’ di spazio per lei: anche se rende poco, almeno ci garantirebbe di essere autosufficienti nel caso in cui non potessimo più, per qualsiasi motivo, importare il cibo come ora.

E questo ci porta alla domanda fondamentale: ma perché non abbiamo abbastanza terra per l’agricoltura?

Una parte, ma quella più marginale, è stata abbandonata e si sta rinselvatichendo. Molti cittadini e amministrazioni chiedono di riportarla all’agricoltura, ma questo significherebbe ricominciare a disboscare e distruggere habitat di specie selvatiche. A parte la perdita ecologica, questo significherebbe rendere il nostro paese ancora più arido e insalubre; non possiamo permettercelo. Inoltre non renderebbe molto.

Il motivo principale per cui manca il terreno agricolo è che il nostro paese è pesantemente cementificato e pesantemente sovrappopolato. Il cemento serve in parte per sostenere l’attività economica (fabbriche, infrastrutture, centri commerciali, spazi per i divertimenti…), e in parte per ospitare in dimore sovradimensionate un’enorme popolazione. E in parte non serve a niente se non a creare lavoro inutile o a distribuire soldi e favori alimentando mafie, corruzione, o ben che vada settori ormai parassitari, nelle loro dimensioni attuali, come quello edilizio.

Intervenire su questo è difficile e richiede tempo e scelte controverse, soprattutto per quanto riguarda come fare a mantenere la popolazione al di sotto di un certo limite, il che richiederebbe, nel caso dell’Italia, cercare di limitare l’immigrazione, unico fattore di crescita della popolazione, e questo proprio mentre una parte politica spinge per far entrare più gente e l’altra per far nascere più bambini, entrambe cose che andrebbero contro la necessità invece di accettare una fase di calo demografico naturale. Un’altra area su cui intervenire è la riduzione e inversione del consumo di suolo, ad esempio togliendo edificabilità alle aree verdi, disincentivando le case grandi, non investendo in infrastrutture sovradimensionate, riducendo la richiesta e i permessi di parcheggi…

Ma tutto questo è inutile se la popolazione non cala a livelli sostenibili, e siccome non cala perché continua ad arrivare gente, soprattutto da aree del mondo sovrappopolate, bisogna investire in politiche di aiuti allo sviluppo che sono molto efficaci per ridurre il numero di nascite e non violano i diritti umani, quali garantire più istruzione alle ragazze, offrire contraccettivi economici e sicuri, fare sensibilizzazione nelle comunità rispettando la loro cultura… questo è un tema che non si può separare da qualsiasi discorso sull’agricoltora. Se vogliamo riequilibrare il rapporto tra bocche da sfamare e terre disponibili non possiamo pensare di intervenire solo sulle terre tralasciando le bocche.

C’è un altro aspetto, a cui si è già accennato precedentemente, che riguarda la scarsa disponibilità di terra. C’è tanta terra che è in mani private ed è destinata a usi che non solo sono improduttivi, ma non offrono nulla alla collettività né all’ambiente. Prati, giardini, parchi, cortili di case private, palazzine e ville, spesso asfaltati, spesso tenuti a prato inglese, non producono cibo, richiedono notevoli sforzi per essere mantenuti, e non sono a disposizione di nessuno se non i proprietari e pochi intimi. Per tenerli così si mobilitano diserbanti, pesticidi, motori e carburanti, giardinieri, e per cosa? Perché qualcuno stia bene a casa sua – obiettivo non di per sè disdicevole, ma piuttosto egoistico in un mondo in cui c’è gente che non ha da mangiare e l’essere umano ha distrutto quasi tutto lo spazio precedentemente occupato dalla natura selvatica. Senza contare che spesso questi spazi si trovano in seconde, terze, quarte case, aggiungendo spreco allo spreco e iniquità all’iniquità. Una politica che incentivi le persone a dedicare parte del verde privato o a usi collettivi o alla produzione di cibo risolverebbe entrambi i problemi, lasciando che parte dei campi possano tornare com’erano prima di venire denudati e coltivati.

E come si fa a convincere la gente a fare questo? La mia proposta, per quanto sembri andare in senso opposto rispetto alle apparenti preferenze degli italiani, è di tassare la proprietà e non il lavoro. Le tasse sulla parte verde delle abitazioni sono molto basse; inoltre, si tende a tassare il valore e il prestigio di un’immobile più che lo spazio effettivamente occupato. Così, un appartamento in una grande città costa molto, mentre chi vive fuori città può tenere per sè enormi estensioni senza risarcire la collettività; anzi, in certi casi godendo pure di agevolazioni su trasporto e carburanti. Guardate come sono costruite le case fuori dagli antichi centri di città e paesi, come sono sparpagliate, orientate male, circondate da giardinetti e parcheggi senza vita, servite da strade larghe e vuote, come si fanno ombra a vicenda, e vi renderete conto piano piano dell’enorme spreco di spazio e luce, spreco che i nostri avi, che avevano ben presente il valore della terra, non si sarebbero mai permessi.

Il sistema di contributi all’agricoltura, poi, premia addirittura la proprietà, che sia utilizzata o meno, mentre il lavoro agricolo non solo è tassato, ma soggetto a molte spese strutturali che non ne aumentano in nessun modo la produttività, ma lo tartassano e basta. In fondo, la proprietà è qualcosa che si sottrae agli altri, il lavoro qualcosa che si dà.

Tassazione delle case in base alla zona e al prestigio più che all’estensione, bassa tassazione del terreno, alta tassazione dell’abitazione e dei terreni edificabili… queste politiche sono in parte responsabili dell’enorme sperpero di spazio nel nostro paese. Tutta questa è terra sottratta alla collettività, alla selvaticità, e alla produzione di cibo. Non solo: la quantità di energia, e spesso anche di erbicidi e pesticidi, utilizzata per mantenere prato e giardino (e per permettere alle persone di muoversi in spazi inutilmente dilatati) è uno scandalo ancora peggiore dei veleni in agricoltura, perché non serve a produrre cibo nè per gli umani nè, spesso, per insetti e uccelli selvatici. In un mondo in cui lo spazio lasciato alla natura selvatica (e alla collettività) è sempre meno, e il cibo non basta mai, un simile spreco andrebbe disincentivato. Non è necessario che ognuno possieda il suo prato: si può passeggiare e fare pic nic anche nei prati pubblici.

Un sistema di tassazione e di informazione diverso incentiverebbe a trasformare prati e giardini in orti e piccoli pascoli, oppure a restituirli alla collettività che ne faccia boschetti, prati stabili, aree verdi, orti urbani…

Una maggiore tassazione della proprietà verde, che sia agricola o meno, potrebbe anche portare a un naturale “riordino fondiario”. In montagna, c’è il problema della frammentazione: minuscoli pezzi di terreno con anche una mezza dozzina di proprietari, molti dei quali preferiscono tenerli e non farci nulla che venderli. In pianura, invece, il problema è spesso l’opposto: il consolidamento della proprietà ha fatto sì che chi aveva soldi si accaparrasse enormi fette di campagna che poi non ha nessun interesse a vendere se non, eventualmente, tutte assieme quando cessa l’attività, a somme enormi che chi vuole entrare in agricoltura difficilmente può permettersi. Il fatto poi che, assieme ai terreni, spesso si vendano le quote pac non fa che incentivare la speculazione. Se possedere terra significa non pagare nulla e magari ricevere dei pagamenti, è chiaro che pochi hanno interesse a venderla. Questo costituisce una grossa barriera all’ingresso in agricoltura di chi non dispone di grossi capitali; chi eredita terreni, invece, può destinarli a usi del tutto improduttivi dal punto di vista alimentare, quali tenerseli come prati o riempirli di animali da compagnia quali asini, pecore, capre, cani o cavalli, o anche semplicemente lasciarli incolti pagando qualcuno che li sfalci e poi prendendo i contributi per lo sfalcio.

L’esempio dei cavalli (e asini e muli) è forse il più eclatante: chiunque entri in contatto con possessori di cavalli si renderà conto che ci sono persone per cui non è assolutamente un problema mantenere per puro piacere svariati di questi animali utilizzando ettari e ettari di terreno, tra fieno e paddock, mentre ci sono persone che non riescono a permettersi nemmeno un ettaro di terra per avviare un’azienda. Ripeto: la disponibilità totale di terreno pro capite in Italia è meno di un ettaro in tutto, infinitamente minore se si considerano i soli terreni agricoli; mediamente, per il solo fieno e senza contare tutto il resto compresi mangimi e acqua, ci vuole un terzo di ettaro per mantenere un cavallo. È assurdo che ci siano persone che tengono per sè una tale sproporzione di terreno fertile per usi improduttivi, mentre siamo costretti a importare cibo o a vivere nelle città schiacciati come sardine.

Questo ha a che fare anche con la diseguaglianza di reddito nel nostro paese, ma siccome, per l’appunto, in Italia la terra è molto scarsa e la fauna selvatica non ha posti in cui andare in grosse fette del nostro paese, nell’interesse sia degli aspiranti agricoltori che dell’uso del poco spazio disponibile bisognerebbe riorientare le pratiche attraverso una diversa tassazione. Un sistema di tassazione della terra, non di incentivi a chi la possiede, potrebbe incoraggiare uno di questi comportamenti virtuosi: o coltivarla, liberando spazio altrove, oppure cederla a delle istituzioni che dovrebbero essere pronte o ad affittarla, o a farne aree verdi, o a permetterle di ritornare a uno stato più naturale possibile.

Bisogna trovare il modo di incentivare la produzione di ortaggi, cereali, uova nei giardini nelle case, ora deserti idrovori di inutili prati all’inglese, cementificati, riempiti di alberi ornamentali, di animali ornamentali, mentre la natura selvatica è costretta ad arretrare sempre di più sotto i colpi sia dell’agricoltura che dell’espansione urbana con le sue “case con giardino”.

Un discorso simile sarebbe da fare per gli allevamenti di animali ornamentali, d’affenzione e da compagnia (notate l’antropocentrismo di queste definizioni). Non serve eliminarli del tutto, ma abbiamo davvero bisogno di tutti questi allevamenti di cani, e poi canili quando la gente si stufa dei cani che ha comprato, gatti, e colonie feline quando vengono abbandonati, e cavalli che vivono trent’anni e non possono essere macellati, e asini che non fanno niente e si annoiano, e polli ornamentali, e canarini, e pappagallini, e chi più ne ha più ne metta? In un mondo restituito all’agricoltura e al tempo stesso rinselvatichito, ci sarebbero abbastanza animali da reddito o lavoro, di tutti i tipi, che farebbero anche compagnia a chi li vuole vicini, e, per quanto riguarda il resto, basterebbe uscire di casa per incontrare l’alterità animale nelle creature selvatiche, fossero anche semplici merli e colombi, ricci e tassi, caprioli e cervi, rapaci, serpenti e leprotti.

(Ho concluso con i leprotti perché i serpenti non incontrano il favore di tutta la popolazione, purtroppo per loro, per non parlare di nutrie o cinghiali – meno ci piacciono, più resistono)

Fin qui abbiamo parlato di grandi riforme. C’è però un problema che va risolto: come fa una persona x, non ricca personalmente né di famiglia, a entrare nel mondo dell’agricoltura senza contributi?

Le barriere all’ingresso sono monumentali, e, come se non bastasse, questo “ingresso” dura anni; gli investimenti necessari per cominciare sembrano non finire mai. La maggior parte della gente non ha idea di quante spese debba sostenere chi ha un’attività in proprio – spese tra l’altro sempre crescenti. Quando si apre un’attività, oltre al costo degli spazi, delle attrezzature, della materia prima e della manodopera, inevitabili, iniziano ad arrivare richieste di pagamento per le cose più impreviste e impensabili: cinquanta euro qui, cinquecento lì, adesso mille, e poi altri cento, finché l’agricoltore o esercente o artigiano inizia a preoccuparsi, ad andare nel panico persino: arriverà mai il momento in cui inizierò a guadagnare qualcosa?

E cosa sono queste spese? Il costo della burocrazia e delle tasse, dei commercialisti, dei piani sanitari e di sicurezza, dei controlli veterinari, dell’adeguamento delle strutture, dell’iscrizione alla camera di commercio, dei consulenti, dei geometri o architetti, della PEC, adesso anche delle nuove costosissime casse per la fatturazione elettronica… e dio non voglia che si abbia bisogno di avvocati per difendere la propria attività! Gran parte di queste spese, che anche quando sono singolarmente basse si sommano fino a soffocare un’attività, sono completamente inutili e parassitarie, non servono a rendere il cibo (o il prodotto, o il servizio) né più sicuro, né più buono, e nemmeno più trasparente. Servono solo a mantenere posti di lavoro che è politicamente troppo rischioso sopprimere, e la rendita di figure professionali che danno per scontato il proprio diritto innanzitutto ad esistere, e poi a guadagnare più delle altre. Un veterinario, un commercialista, un dirigente pubblico, un consulente, per non parlare di un notaio, troverebbero probabilmente iniquo guadagnare come un contadino. Si offenderebbero solo all’idea. I contadini sono loro inferiori.

Inoltre, una lunghissima serie di divieti e obblighi impone all’allevatore o all’agricoltore di perdere tempo e soldi in cose impensabili fino anche solo a qualche anno fa, come smaltire nella maniera più costosa possibile rifiuti innocui, ottenere patentini, compilare moduli sempre più dettagliati, fare corsi su cose che sa già, ricomprare continuamente le attrezzature per essere sempre a norma con norme che cambiano ogni pochi mesi, e chi più ne ha più ne metta. È incredibile la tenacia e la capacità di sopportazione, e di spesa, che servono per entrare in questo mestiere e restarci.

Non si può pensare a una riforma dell’agricoltura, o di qualsiasi altro settore, che prescinda dalla fondamentale esigenza di ridurre tasse, regole e burocrazia. Certo, si perderebbe qualche posto di lavoro, che però si potrebbe recuperare in settori effettivamente utili o produttivi.

Faccio alcuni esempi sulla base della mia esperienza, ma sicuramente ce ne sarebbero di innumerevoli:

cambiare le norme restrittive sul tenere animali in zone “residenziali” (per recuperare spazi agricoli senza enormi patrimoni e senza cementificare ulteriormente). Spesso le case e stalle più economiche sono in zone che sono sempre state agricole ma in cui un misto di norme severe e insofferenza collettiva rende impossibile tenere animali, anche se in condizioni dignitose. Per capirci, si è deciso che la cacca del cane non puzza, mentre quella di galline, vacche, eccetera, sì. Voi non avete idea: ci sono aziende agricole in vecchi paesi o in campagna in cui non si possono tenere animali all’aperto o non si possono tenere proprio per via di norme iper-restrittive. Qui non dovrebbe essere colpa dell’Europa, se è vero quello che si dice, e cioè che in Austria ci sono ancora le mucche in mezzo alle case. Per dire, qui in paese sono stata denunciata ben due volte dai vicini per un piccolo pollaio, che ho dovuto togliere (e che non puzzava né dava nessun fastidio se non per il fatto di esistere)

ripensare le norme sui prodotti lavorati. Adesso le uova devono essere pastorizzate, gli ambienti per la lavorazione del formaggio devono essere più sterili dello studio di un dentista, il latte deve avere la carica batterica di un bosone di Higgs, per vendere prodotti lavorati bisogna fare più corsi che per andare nello spazio, si può macellare un animale solo previa promessa di incenerire i suoi resti dentro a una supernova e poi buttare le ceneri nella fossa delle Marianne e ricoprirli con sessanta metri di calce viva e il cappuccio di Chernobyl… eccetera. Siamo tutti d’accordo che non va bene avvelenare la gente con prodotti contaminati, ma a forza di temere qualsiasi evenienza per quanto improbabile stiamo sterilizzando il cibo finchè non ha più proprietà nutritive e i contadini, soprattutto quelli medio-piccoli, diventano pazzi. E poi vengono fuori scandali dagli allevamenti intensivi dove gli animali sono stipati a concentrazioni tali che è ovvio che si svilupperanno malattie. Sulla base di questo, si fanno regole che paradossalmente avvantaggiano i grandi allevamenti intensivi, quelli che creano il problema, a discapito di quelli più piccoli o più estensivi, in cui però i rischi sono minori. Ci vorrebbero più controlli, più attenzione e buon senso, meno norme

– i vincoli paesaggistici vanno bene, ma alle volte sono davvero esagerati: niente reti arancioni, neanche mobili, perché sono brutte, un’allevatrice veneta mi ha detto che arrivano i droni con le telecamere appena mette un picchetto… e poi lo vedete com’è ridotto il territorio, è evidente che questi vincoli non stanno risolvendo il problema – per non parlare di cosa comporta, se non trovate una stalla già pronta, costruirne una nuova: almeno dieci metri dalle case, il progetto del geometra, elettricità, acqua corrente, e probabilmente dal 2020 anche dei megaschermi sintonizzati su TeleTame e una spa disegnata da Renzo Piano

ridurre costi fissi di apertura, spese burocratiche e costi annuali fissi, tipo: camera di commercio (circa cinquanta euro all’anno), piano per la sicurezza (svariate centinaia di euro), costi di registrazione di ogni piccolo movimento (per gli animali, qualche euro a capo, di più se sono cavalli e non ho mai capito cosa cavolo facciano tutto il giorno i dipendenti dell’Anagrafe degli Equidi) più costi delle marche auricolari o microchip, marche da bollo (almeno una ventina di euro), geometri, commercialista e notai (hahaha non ve lo dico neanche)… queste spese, numerose e consistenti, si sommano e si concentrano nel momento dell’apertura di un’attività. Ogni volta che mi arriva una fattura calcolo quante pecore dovrei vendere solo per pagarla, e alla fine sono molte più pecore di quelle che ho, solo per queste piccole spese burocratiche esagerate o inutili

eliminare le norme che rendono difficile la commercializzazione di piccole quantità, fornire informazioni semplici, chiare e facilmente reperibili su come si fa e cosa si deve fare. È tutto così complicato che alle volte capita di arrendersi, andare negli uffici competenti, prostrarsi e implorare: ditemi voi cosa devo fare e lo farò, qualunque cosa sia!, e sentirsi rispondere: io non lo so, dovresti chiedere al mio collega che però è uscito / in ferie / scappato / morto…

andarci piano con i corsi, ormai necessari per qualunque cosa, che solitamente consistono in sessioni a pagamento a orari scomodi in cui persone che non fanno una cosa insegnano come si fa a gente che la fa da vent’anni (avete presente l’episodio di Monty Python in cui un inglese insegna l’italiano agli italiani?)

mettere in affitto terreni pubblici in piccole quantità e a condizioni e prezzi ragionevoli per chi non ha dai venti ai cento mila euro per un ettaro

ridurre la tassazione (e l’iper-normazione) sul lavoro e piuttosto controllare fenomeni quali il capolarato e lo sfruttamento nelle campagne

riequilibrare il reddito tra agricoltori / allevatori e loro dipendenti, da un lato, e le figure a cui sono costrette a rivolgersi, dall’altro – chi coltiva o alleva è obbligato ad avvalersi delle prestazioni di veterinari, notai, funzionari pubblici di vario tipo, camere di commercio, spesso anche architetti e avvocati, i quali hanno uno stipendio garantito solitamente ben superiore al suo. Questo aumenta i costi dell’esercizio e riduce il guadagno dell’agricoltore, senza che ci sia nè possibilità di fare altrimenti, nè vera concorrenza (alcuni sono dipendenti pubblici, altri hanno tariffe minime)

– questo vale per tutto: meno leggi, più controlli. La questione è complessa, ma a me sembra che si sia enormemente esagerata la possibilità di intossicazioni alimentari. Tra l’altro, molti dei metodi di lavorazione del formaggio, dei sottaceti e delle conserve, degli insaccati e degli alcolici, metodi collaudati nei millenni, consistono proprio nell’introduzione di micro organismi, zuccheri o acidi nell’alimenti il cui compito è impedire a organismi dannosi di moltiplicarsi. Basterebbe fare regole minime per evitare le peggiori schifezze, e poi controllare i prodotti in vendita a campione e frequentemente, ma in base a criteri sensati.

Ripeto: se si vuole facilitare l’ingresso, di giovani e non, in agricoltura, si devono ridurre tasse e burocrazia e semplificare le norme. Oltre all’effetto ovvio di liberare risorse quali tempo e denaro, questo avrebbe la conseguenza altrettanto importante di rendere redditizia un’attività agricola molto prima di quanto lo sia ora, riducendo i tempi dell’amortizzazione delle spese e permettendo di vendere e commerciare i propri prodotti senza costosissimi investimenti in impianti a norma secondo norme esagerate. Avviare un’attività è costoso anche perché si richiedono enormi investimenti iniziali solo per partire. Se si trovasse il modo di rendere possibile un’agricoltura incrementale, in cui si comincia con poco e sono i guadagni stessi dell’attività a rendere possibili ulteriori investimenti, non servirebbero i contributi per partire. Ma questo, e arriviamo al prossimo punto, potrebbe dare fastidio alle banche…

Può essere che un agricoltore che comincia abbia bisogno di una somma, neanche tanto grande, che non ha in tasca. Le banche possono avere un ruolo positivo in questo, ma spesso applicano tassi da usura ai piccoli e molto più bassi per i grandi produttori, in maniera regressiva. Non ho idea di come si potrebbe intervenire su questo, ma è un altro aspetto importante della questione: un accesso al credito che incentivi a ripagare i debiti ma a condizioni eque e non svantaggiando i piccoli a favore dei grandi e i debitori a favore dei creditori.

Si parlava nei capitoli precedenti della necessità di sostenere con i contributi l’agricoltura di montagna. In realtà l’agricoltura di montagna, quando è svincolata da norme irragionevoli, si sostiene da sola. Basterebbe che i montanari comprassero i propri prodotti. E perché non lo fanno? Perché costano di più. E perché costano di più? Innanzitutto, perché anche gli altri ricevono i contributi, quindi il vantaggio relativo di dare contibuti alla montagna è più o meno zero. E poi, perché tutte le politiche dei nostri governi sono volte a incentivare il trasporto, per cui portare merci prodotte a centinaia o migliaia di chilometri di distanza a competere con le merci locali è conveniente. Se si tolgono i contributi a tutti, si tolgono le agevolazioni ai trasporti, e si riducono le norme igienico-sanitarie, l’agricoltura nelle aree marginali non avrebbe i problemi di ora.

Qualche giorno fa ho parlato con l’oste (chef? cuoco?) di un ristorante locale. Mi ha detto che aveva l’abitudine di comprare tre litri al giorno di latte freschissimo da una stalla del posto. Un giorno sono venuti non so quali ispettori pubblici a controllargli la cucina, come fanno spesso, e hanno bevuto un macchiato. “Uh, che buono!”, hanno detto. Per forza, ha risposto lui ingenuamente, è fatto con il nostro latte, preso appena munto!

Vi lascio indovinare com’è finita questa storia.

Voi non avete idea di quanto sia esasperata la gente da tutto questo. Non sono solo piccoli dettagli tecnico-economici o buffo folklore. Le persone soffrono per questo. Sono stressate, arrabbiate, sconsolate, insicure, vogliono gettare la spugna, arrendersi, rinunciare al proprio sogno, o si incattiviscono, minacciano violenza, rinunciano all’idea di poter cambiare qualcosa, di contare in questa società, disobbediscono alle leggi, non credono più a nessuno.

È della vita della gente che stiamo parlando. Facciamo qualcosa, vi prego.

E ora arriviamo al punto finale: senza contributi, come facciamo a sostenere un’agricoltura che sia sostenibile, anche se meno produttiva a breve termine, e disincentivare l’agricoltura industriale distruttiva?

Adesso, l’onore della prova è su chi lavora bene: dimostrami che non fai danni, e ti darò dei soldi. Siccome accedere a un contributo richiede tempo e denaro (in bolli e consulenze e ore di lavoro perse), anche premiare un comportamento virtuoso comprende una parte di punizione. Il meccanismo andrebbe ribaltato: se vuoi fare cose dannose, dovrai chiedere permessi e pagare più tasse. (Escluse le pratiche peggiori, che vanno vietate e basta) Chi si fa i fatti suoi e fa un’agricoltura ragionevole, dovrà compilare meno carte rispetto a chi si arma fino ai denti di pesticidi ed erbicidi, usa combustibili fossili, estrae troppa acqua con le pompe, e così via. Il vantaggio del far pagare più chi inquina, anziché compensare chi non lo fa, è che scarica il costo e la fatica su chi fa il danno, non su chi si comporta bene.

Si tratterebbe di “internalizzare le esternalità“, cioè: siccome l’agricoltore che produce di più lo fa a discapito della salute collettiva, della salubrità di suoli, aria e acque, delle altre attività quali l’apicoltura e dell’ecosistema e della natura selvatica, è giusto che questi costi che scarica su altri (esternalità) siano invece a suo carico (internalizzati) e quindi a carico dei suoi prodotti, che diventano meno convenienti rispetto a quelli prodotti in un modo migliore per tutti. È molto difficile misurare l’entità del danno, e ci saranno sicuramente polemiche, ma va fatto; cominciare togliendo i contributi che invece sovvenzionano queste pratiche dannose è già un buon inizio.

Bisogna applicare il principo che “chi inquina paga“. Vedendola sempre in termini economicistici, “l’agricoltura intensiva dà priorità al raccolto abbondante – il dividendo annuale – mentre il nuovo approccio considera più importante la conservazione del capitale iniziale – la terra stessa” (dal link di cui sopra). Per quanto può sembrare riprovevole vedere la natura in termini economici, economia ed ecologia hanno la stessa radice e l’agricoltura è l’attività economica primaria, e chi la pratica ha bisogno che le entrate siano maggiori o almeno uguali alle uscite, altrimenti fallisce. Le leve economiche non sono tutto, ma sono importanti nel dirigere i comportamenti degli agricoltori, che, al netto del consumo domestico, devono agire e riuscire a sopravvivere sui mercati (dove si è provato a fare diversamente, come nell’Unione Sovietica, con la pianificazione centrale, il risultato a lungo andare è stato disastroso).

C’è una cosa che non viene praticamente mai detta, se non dai difensori dell’agricoltura attuale e dello sviluppo tecnologico: un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente e delle altre specie quasi inevitabilmente avrà rese minori per ettaro. Questo per due semplici motivi: uno è che, se si vuole conservare il “capitale iniziale”, non si può prelevare troppo tutto in una volta; l’altro è che, siccome la materia è sempre quella, se lasciamo che sui nostri terreni agricoli vivano anche specie selvatiche, la loro biomassa non sarà disponibile per noi. C’è un motivo se si buttano veleni per distruggere gli insetti: gli insetti mangiano i nostri raccolti. Gli uccelli poi mangiano gli insetti, vengono predati a loro volta, eccetera, ma, anche se gli uccelli mangiano una parte di parassiti e mantengono l’equilibrio, quello che va in biomassa per loro graziosi corpicini alati non può finire nei nostri stomaci (a meno che poi non ci mangiamo tutti gli uccelli, ma allora si estinguono i rapaci e i mammiferi, eccetera).

Al tempo stesso, però, probabilmente dovremmo prepararci a un calo sensibile della produzione. E qui veniamo alla questione più spinosa di tutte: il fatto che, checché se ne dica, non si possono salvare capra e cavoli, cioè non si può avere un’agricoltura che conserva le risorse e lascia spazio agli altri esseri viventi sul suo stesso terreno, e produce le quantità spaventose di cibo a cui ci siamo abituati.

La più convincente difesa del devastante status quo è che bisogna sfamare gli imminenti dieci miliardi di esseri umani. Bè: dieci miliardi di esseri umani sono troppi. Qualunque soluzione si trovi per tenerli in vita su questo pianeta causerà sofferenze a loro e alla vita sul pianeta stesso. Non esiste una soluzione alimentare alla sovrappopolazione.

NON ESISTE UNA SOLUZIONE ALIMENTARE ALLA SOVRAPPOPOLAZIONE.

(Anche perché la sovrappopolazione non causa problemi solo di approvigionamento di cibo)

Tutte le soluzioni finora inventate per produrre più cibo hanno avuto l’effetto non solo di danneggiare l’ambiente in infiniti modi, ma di spostare più in là la soluzione al problema della sovrappopolazione, con il risultato che la produzione di cibo si è sempre trovata a rincorrere la crescita demografica resa possibile dal suo stesso aumento, in una spirale perversa senza fine. Produciamo più cibo che mai, eppure c’è ancora gente che muore di fame; stiamo cercando di risolvere il problema partendo dal lato sbagliato. Riuscire a sfamare dieci miliardi di persone significa solo che poi ci troveremo a dover capire come sfamarne dodici, e quattordici, e così via. A un certo punto bisogna dire: basta. Dato lo stato del mondo, questo punto potrebbe essere adesso. Con contraccettivi, pratiche di sensibilizzazione, collaborazione e amicizia tra paesi e un discorso franco su questi temi, la popolazione può calare naturalmente e in modo indolore. Così potremo accettare una minor produzione di cibo e un ambiente più sano e una maggior condivisione del mondo con altre forme di vita.

E anche noi che ci riproduciamo poco ma consumiamo molto dobbiamo fare la nostra parte. Dobbiamo accettare come società, agricoltori compresi, un tenore di vita un po’ più basso. Si starebbe bene lo stesso, forse anche meglio per il minor stress e la natura che rinascerebbe attorno a noi, e potremmo allentare la pressione su questa povera terra martoriata.

Concludo con alcune riflessioni per andare oltre all’agricoltura immaginando, avanti o indietro nello spazio e nel tempo, un territorio non completamente assoggettato alla fame umana. Un territorio selvaggio. Proprio nel nostro continente europeo bacchettato continuamente per il suo consumismo e la sua prepotenza globale, in realtà si stanno vedendo già i primi germogli del declino, e il ritorno nelle zone da cui l’uomo si ritira di tutta la vita che ha cacciato per far posto a sè.

Una parte dei contributi, o delle proposte di riforma della Pac, ruota intorno all’idea di pagare i contadini per lasciare terre a riposo o fornire “servizi ecosistemici”. Io non penso che sia giusto, perché il compito dei contadini è produrre cibo, non gestire riserve naturali; non hanno le competenze per occuparsi di biodiversità o gestione di flora e fauna selvatica, né si può pretendere che le abbiano. Le terre che si vogliono togliere all’agricoltura per farne aree selvagge, protette, disponibili a tutti come parchi o proibite a qualsiasi attività umana, andrebbero comprate dagli agricoltori a un prezzo onesto e gestite come beni collettivi a livello di comunità, regione, stato o altra istituzione.

In alcune zone, questo è successo nonostante le politiche in senso contrario, o parallelamente ad esse: l’agricoltura è stata abbandonata. Le persone se ne sono andate, spesso con il cuore a pezzi; ma la natura non conosce vuoti, e altre forme di vita hanno preso il suo posto. Alle volte spontaneamente, alle volte grazie a sforzi umani, l’Europa si sta inselvatichendo. È il “rewilding” – dall’Appennino al Portogallo, dalla Scozia a Chernobyl, tornano lupi, orsi, linci, grandi erbivori che non ci ricordavamo nemmeno più esistessero, gli antenati selvatici dei nostri buoi o dei nostri cavalli…

Si tratta di un fenomeno complesso, con costi e benefici, che va trattato con attenzione per evitare che le popolazioni locali, spaventate e usate come cavie senza essere consultate, finiscano per uccidere le piante o gli animali che si è faticosamente cercato di reintrodurre – o che sono tornati da soli. Alle volte questo ritorno della natura selvaggia viene presentato in termini utilitaristici: assorbe CO2, fa arrivare i turisti… per una volta, però, almeno qui, potremmo mettere da parte la nostra solita contabilità. Qualcosa che è giustificato in termini economici perde il suo diritto di esistere quando i conti non tornano più. Portiamo fuori almeno dei pezzi di mondo da questa logica. Restituiamoli, e basta, al pianeta selvaggio a cui li abbiamo tolti. Reimpariamo ad avere dei limiti.

10 risposte a “7 – Ci sono delle alternative

  1. Ineccepibile, chiaro, razionale, equo, ecologico.
    Quindi… utopico.

  2. gaiabaracetti

    Può essere, ma siccome le cose nel mondo di tanto in tanto cambiano, addirittura alle volte in meglio, ognuno può provare a indicare una direzione, non trovi?

  3. Come al solito niente da eccepire.
    E si vede che sei entrata a pieno titolo nel mondo agricolo con tutti i suoi paletti, che fino a 30 anni fa non esistevano o per lo meno erano molti di meno. E perché tutto questo? Per dare lavoro a quelle centinaia di migliaia di persone che negli anni si sono inventate norme e regole con la scusa di ‘lavorare’ per gli altri quando invece non fanno altro che impedire di lavorare a chi un lavoro manuale vero lo vuole fare. Bastavano quelle poche norme per impedire ai furbetti di approffittarne, ma purtroppo sappiamo tutti come funziona la burocrazia in Italia (e in Europa).
    Personalmente non conosco il numero massimo di persone che potrebbero vivere sull’italico suolo senza dover contare sull’importazione di cibo dall’estero, ma osservando come sia cresciuta la popolazione negli ultimi 150 anni https://images.tuttitalia.it/grafici/italia/grafico-censimenti-popolazione-italia.png sicuramente bisognerebbe tornare almeno alla popolazione che c’era negli anni cinquanta.

    P.S. che vicini ingrati! Per fortuna che nel mio paese sono ancora molti quelli che hanno un pollaio e usufruiscono di uova fresche, cosicché non si pone il problema.

  4. gaiabaracetti

    La maggior parte dei vicini è gentilissima e mi dà anche il pane vecchio per le galline. Purtroppo basta che uno solo rompa le palle, se il piano regolatore dice che ha ragione, ha ragione. Comunque uno dei due che mi ha denunciato aveva le mucche in mezzo al paese fino a qualche anno fa, l’altra ha un pollaio suo, ma comunque o lei o suo figlio hanno denunciato il mio.

  5. Stavo meditando su quanto sta succedendo in questo periodo e su quello che non viene detto dai mass media e che mi ha riferito un (ex)collega e potrebbe essere che “qualcuno” abbia trovato un modo drastico per ridurre il numero di persone che abitano il nostro pianeta e quello che stiamo vivendo non sia altro che una prova generale per capire come il mondo possa reagire.

  6. gaiabaracetti

    Tutti sono capaci di fare le congetture più fantasiose: ci vogliono le prove.

  7. Gaia, la mia nota era un po’ cinica.
    Indicare una direzione sensata e’ ottimo e meno male che qualcuno lo fa! 🙂

  8. Prendendo spunto da queste tue parole “Dobbiamo accettare come società, agricoltori compresi, un tenore di vita un po’ più basso. Si starebbe bene lo stesso, forse anche meglio per il minor stress e la natura che rinascerebbe attorno a noi, e potremmo allentare la pressione su questa povera terra martoriata” mi rendo conto che la mia vita è già così perché in questo momento di crisi praticamente per me non è cambiato niente, a parte il fatto di dover lavorare da casa in modo telematico invece che recarmi sul luogo di lavoro. Invece immagino che la maggior parte delle persone stia facendo non pochi sacrifici a livello di stile di vita.
    Non voglio di certo essere di esempio per gli altri, ma le tue parole non fanno altro che confermare quanto la cosa sia fattibile e posso testimoniare di persona che non conosco il significato della parola stress 🙂

  9. gaiabaracetti

    Beato te! Io purtroppo sì, nonostante la vita bucolica…

  10. Pingback: 6 – Tenendo artificialmente bassi i prezzi del cibo, i contributi all’agricoltura incentivano lo spreco alimentare e disincentivano l’autoproduzione | gaia baracetti

Lascia un commento