I giorni giusti per il fai-da-te

Come vi avevo raccontato a suo tempo, nel dicembre del 2018 ho partecipato alla Fiera dell’Artigiano a Rho, fuori Milano, con un gruppo folkoristico locale. L’evento si teneva in un luogo che, come molte costruzioni moderne, era brutto fuori ma bello dentro: fuori era una sequenza apparentemente interminabile di capannoni parallelepipedici circondati da immensi parcheggi (il grigio! il grigio sotto, attorno e sopra, tutto grigio!) e poi strade, ma dentro c’erano banchetti di ogni regione d’Italia e paese del mondo; era praticamente impossibile girarlo tutto in un giorno e trovavi qualsiasi cosa.

Per qualche motivo, la Regione Friuli Venezia Giulia aveva deciso di spendere parecchio per l’evento, e di fare del nostro spazio dedicato all’interno dell’enorme Fiera una vetrina, letteralmente, anziché solo un mercato per vendere prodotti. C’erano mosaicisti, arrotini in bicicletta, filatrici, cucitrici e ricamatrici, c’era musica, animazione, e un chiosco alimentare con cibo e vino che era originale, genuino e fantastico. C’era anche una signora che sgranava fagioli, perché aveva scoperto, per caso, che i milanesi, non avendo mai visto nessuno sgranare fagioli, trovavano questo spettacolo interessante. In tanti, ovviamente, si fermavano anche a vedermi filare, ma nessuno comprava la lana, perché fare a maglia o a uncinetto è una cosa da nonne (idea che mi lascia sempre più incredula perché non corrisponde per niente alla mia esperienza), e poi perché i milanesi, e per milanesi intendo quelli che vivono a Milano anche se non sono di Milano, non hanno tempo per queste cose. Devono lavorare.

Adesso, a quanto ho sentito, la Fiera di Rho sta diventando un ospedale per malati di Coronavirus, e i milanesi hanno molto meno da lavorare anzi devono stare a casa. Chissà se qualcuno ha fatto un pensierino all’idea di imparare a fare a maglia una buona volta.

Stamattina, in radio, durante una trasmissione su come fare istruzione con i bambini e ragazzi costretti a casa, sentivo di un’associazione attiva in un quartiere povero di Napoli che aveva distribuito fondi alle famiglie per questo scopo, per sentirsi poi chiedere se potevano essere spesi invece per mangiare, perché non lavorando non avevano più soldi

(sì, lavoro nero, sì, bisogna mettere via prima, bla bla)

Allora mi sono sorpresa a pensare che sicuramente in questo quartiere di Napoli batte il sole, che almeno un davanzale ce l’avranno, che sta arrivando la primavera anzi probabilmente laggiù c’è già, e che se fossi io lì andrei in giro a cercare di convincere le persone a tenere dei vasi di basilico, pomodorini, le cose facili per non annoiarsi e prodursi un pochino di cibo da sè.

(Ovviamente non farei niente del genere, ma mi è sembrata una bella idea. Magari a Napoli hanno già tutti il basilico anche nei quartieri popolari… non lo so!)

Ecco, solo questo voglio dire: per chi è costretto a stare a casa, cioè quasi tutti, questo è il momento giusto per cominciare a imparare qualcosa di nuovo, qualcosa magari che aiuti a utilizzare degli scarti o ad autoprodurre e quindi risparmiare un po’ in questo momento difficile. Tipo orti di guerra, ma in casa. Imparare a fare il pane con la pasta madre (non c’è pericolo di dimenticarsi di lei, quando non puoi uscire), piantare qualche vasetto, cucinare di più, farsi i detersivi, cucire…

Voi state facendo qualcosa del genere? Vi sembra una buona idea?

Vi dico cosa mi sono messa a fare io: i tappetini di stracci. Questa è una cosa talmente dispendiosa dal punto di vista del tempo che la si fa proprio per quello, diventa una questione di principio, come auto-flagellarsi se sei un monaco o … non mi viene in mente un altro esempio in realtà – insomma una cosa che si fa proprio perché farla ci costringe ad arrivare all’estremo dell’applicazione di un’idea, a dare una dimostrazione suprema e spettacolare di quanto si è convinti di qualcosa.

(O come dire un rosario, o pregare… un esercizio nella cui esecuzione stessa sta il senso)

Il tappetino di stracci è il massimo dell’economia circolare, dell’upcycling, l’ultimo modo rimasto per utilizzare il quasi inutilizzabile, l’avanzo dell’avanzo. Si fa con scampoli di stoffe troppo piccoli per farci altri vestiti; questi scampoli devono essere tagliati in striscioline abbastanza simili, arrotolati a mano in corde, e poi cuciti a serpentina. Si va avanti con estrema lentezza, e questo è il punto. Mi sono accorta che quando vedo un manufatto e mi rendo conto che contiene ore e ore e ore di lavoro, questo io lo sento e lo rende più bello, quasi avvolto in un’aura magica.

Tocca a voi, se avete qualcosa di simile da raccontare.

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12 risposte a “I giorni giusti per il fai-da-te

  1. winston (diaz)

    I tappetini di stracci altrove si chiamano patchworks, e sono anche di moda da un pezzo in paesi piu’ ricchi del nostro, dove se non erro ci sono molti circoli di appassionati/e, e dove il lavoro manuale artigianale e’ meno disprezzato che nel nostro che e’ di recente arricchimento per cui qui a fare certe cose la gente si sente degradata (tipo andare in bicicletta non per sport con bici da 4000 euri, ma per le necessita’ di spostamento come faccio ad esempio io ormai da decenni).
    Un tempo i pachworks si facevano per necessita’ perche’ poverta’ vuol dire tanto lavoro umano disponibile a prezzo zero e pochissimi beni materiali disponibili a prezzo altissimo. Oggi nei paesi occidentali e’ un po’ di moda perche’ c’e’ un sacco di gente benestante che puo’ permettersi di farlo per hobby avendo appunto tanto tempo libero, cosa che i poveri del mondo non hanno occupati come sono gia’ a cercare di procurarsi la pagnotta.

  2. gaiabaracetti

    No, in realtà il patchwork è diverso da quello che sto facendo io: il mio tappeto non è imbottito e gli scampoli non sono cuciti tra loro ma arrotolati in corde e cuciti così (se a qualcuno interessa faccio una foto, ma dubito che interessi).
    Per il resto, quello che tu dici è corretto, e immagina il mio stupore quando ho scoperto che nei negozi dove si vendevano stoffe per il patchwork queste non erano rimasugli avanzati (il senso della pratica è recuperare gli avanzi o riciclare vecchi vestiti), ma pezzi di stoffa nuova tessuti interi e fatti a pezzettini apposta! Come spesso accade, la forma senza la sostanza.
    Nel mio caso, lo faccio non solo perché ho tempo ma per principio, per recuperare scarti e fare una cosa che effettivamente mi serve. Certo, al negozio lo troverei per pochi euro, ma non sarebbe lo stesso oggetto e probabilmente sarebbe stato fatto sfruttando qualcuno.

  3. gaiabaracetti

    (Riguardo alla trasformazione di antiche necessità in hobby che anziché portare a un risparmio di energie ne fanno spendere di ulteriori, perché possiamo permettercelo, è un argomento così vasto che sto provando a scriverci un libro…)

  4. winston (diaz)

    Ma certo che interessa una fotina!
    Per non parlare degli “scampoli”, parola che non sentivo da secoli! Quand’ero piccolo con mia mamma andavamo al mercato, ma anche nei negozi di stoffe allora diffusi (adesso hanno chiuso quasi TUTTI), dove c’erano appunto gli “scampoli”, montagne di scampoli.
    Ma allora tutte le donne, che da casalinghe erano super-abili e operose (adesso sono considerate statisticamente inoccupate, e praticamente delle fannullone), sapevano cucire gli abiti per loro e tutta la famiglia valorizzando al massimo il minimo di materia prima, cosa che nella divisione dei compiti fra maschi e femmine dell’epoca era scontato, e il “lavoro” in senso burocratico-contabile-formale scarseggiava gia’ per i maschi (anche se mia mamma, con patente C da camion fatta a 18 anni in pieno fascismo, non era del tutto d’accordo…).
    En passant forse hai letto, e credo hai letto, quello dei vari libri di Diamond, forse “Collasso”, in cui si dice che i vikinghi groenlandesi si estinsero con l’arrivo della piccola glaciazione anche perche’ le loro donne non seppero, o vollero, imparare a cucire i kayak con le pelli di foca come le abilissime groenlandesi, che rendevano possibile la sopravvivenza a quelle latitudini attraverso la “caccia e raccolta”, e non con la cultura dell’agricoltura e pastorizia che si erano portati anacronisticamente dietro in groenlandia gli islandesi ivi emigrati.
    E’ un bel libro sotto vari aspetti come tutti quelli di diamond, non so se riporto correttamente il suo contenuto o se e’ frutto di mie interpolazioni e fantasie, lo lessi quando usci’ in prima edizione italiana ormai parecchi anni fa, e comunque oggi probabilmente ci sono milioni di altri libri altrettanto se non piu interessanti.

  5. winston (diaz)

    “anziché portare a un risparmio di energie ne fanno spendere di ulteriori, perché possiamo permettercelo, è un argomento così vasto che sto provando a scriverci un libro”

    non trascurare gli orti domestici dei pensionati e degli appassionati… ne conosco che usano per produrre quasi nulla tante diavolerie ed energia, con cui un professionista sfamerebbe un paese di almeno 1000 abitanti, oltretutto sterilizzando e togliendo e squilibrando territorio agli animali selvatici con cui sono in ovvia e spietata lotta: ma vuoi mettere l’hanno fatto con le loro mani…

  6. gaiabaracetti

    Non ricordo questo particolare in Collasso, ma ricordo che gli uomini andavano a cacciare tricechi per vendere l’avorio per comprare vetri e calici per le chiese, anziché metalli o altre materie preziose per la sopravvivenza… e tante altre cose.

  7. gaiabaracetti

    Bè qui la gente va in macchina all’orto… per non parlare di motocarriole, motovanghe, e chi più ne ha più ne metta, probabilmente bruciando solo per arrivare all’appezzamento molte più calorie di quante l’orto o il campo stessi possono produrre. Come dico nella mia serie sui contributi, sia petrolio che cibo costano troppo poco, per cui non ci rendiamo conto di cosa effettivamente serve a produrre cosa.
    E, sempre come ho scritto in quella serie, avere terra non costa nulla in tasse, per cui ci si può giocare a piacere senza rendersi conto della ricchezza che si sperpera. Se tu pagassi per un terreno verde le tasse che paghi per un terreno edificabile, o lo usi in senso produttivo, o meglio cederlo alla collettività o ad altri!

  8. gaiabaracetti

    Come richiesto, ho messo una foto. È un po’ bitorzoluto, essendo il primo, ma fa un bell’effetto (o meglio lo farà quando sarà finito, ci vorranno credo almeno un altro paio di epidemie…)
    (Scherzo e non si scherza su queste cose)

  9. brava Gaia bel post!

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  11. Adesso si capisce il manufatto!
    Comunque lo stesso identico tipo di lavorazione se non sbaglio si trova negli strofinacci per la casa fatti a macchina, ne ho e cucendone tre ci ho fatto il tappeto per il bagno, e si trova anche in tappeti per uso pratico-casalingo sempre fatti a macchina, che fanno uso proprio di stoffe riciclate, a casa devo averne ancora di comprati qualche decennio fa nelle ferramenta/consorzi-agrari del posto. Non e’ da escludere che in italia abbiamo qualche record mondiale in questo tipo di lavorazioni tessili, ma dovrei cercare la fonte, avevo letto da qualche parte qualcosa in proposito tempo fa, e la memoria inganna. Se avete voglia cercate in google, magari qualcosa di non del tutto sbagliato nel mio ricordo c’e’.
    Ecco qua un articolo, trovato:
    https://www.corriere.it/buone-notizie/19_aprile_24/prato-record-mondiale-tessuti-riciclati-143mila-tonnellate-150439a4-6694-11e9-b785-26fa269d7173.shtml

    winston

  12. gaiabaracetti

    Credo che gli strofinacci di cui parli tu siano in realtà tessuti; ci avevo pensato a farli così ma bisogna costruire un telaio, per quanto rudimentale, e avere un filo robusto per l’ordito. Sono abbastanza diffusi e tempo fa li avevo visti a un mercatino, venduti da persone dell’Europa dell’Est, che se non ricordo male mi hanno detto che erano fatti a mano. Sono anche molto belli se fatti con gusto, e può darsi che siano più robusti del mio tappetino, che devo ancora sottoporre alla prova lavaggio.
    Grazie per il link. Anche a Presa Diretta avevano parlato del riciclo di tessuti a Prato, intervistando persone che se ne occupano. Non per essere pignola, ma dato che siamo qui a parlare di questo: patchwork, tappeti di stracci e manufatti simili non sono frutto tanto di riciclo, quanto di riutilizzo – riciclare vuol dire sfilare i tessuti per ricavarne il filo oppure la fibra, mentre qui si usa ancora il tessuto originale, anche se fatto a pezzettini. Diciamo che delle tre R è più vicino a quella di mezzo, “reuse”.
    Per quanto mi riguarda, e poi la smetto :), ognuna di quelle cordicelle che vedete in foto si ritrova anche in vestiti (o borse) che mi sono fatta, spesso utilizzando a loro volta scampoli recuperati dalla soffitta di mia nonna (che per un certo tempo ha commerciato stoffe e vestiti) o comprati in una merceria di Udine la cui titolare a sua ulteriore volta ha svuotato il deposito di stoffe di una sarta in pensione, trovando tra l’altro tessuti stupendi e forse anche, a occhio, più robusti di quelli di adesso.
    La vita di una stoffa può essere lunghissima e avventurosa – peccato che l’abbiamo dimenticato.

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