Bangladesh

Metto subito il link a questo reportage del Guardian sulle fabbriche di vestiti in Bangladesh, sul Rana Plaza e sulle conseguenze tragiche del nostro consumismo; lo metto subito perché è multimediale e fa un sacco di rumori quando si apre, quindi ne libero il mio browser prima che mi rincoglionisca (ah, l’horror vacui dei nostri tempi ansiosi…).

Al di là dell’ovvio – sfruttamento, consumismo, ambiente, diseguaglianze globali, crescita della popolazione… – non ho potuto fare a meno di notare come queste donne poverissime che fanno vestiti per noi ricchi siano molto più belle ed eleganti degli occidentali che i loro vestiti li comprano. Mi stupisco sempre della bellezza dell’abbigliamento tradizionale sudasiatico: magari non hanno da mangiare, ma anche le mendicanti indossano sari meravigliosi.

Un giorno dovrò capire perché più le masse si arricchiscono, più tutto diventa brutto. Non dovrebbe essere il contrario? La fretta, il consumismo, l’emulazione veloce, la mancanza di cultura, la voglia di cambiare più che di godersi quello che si ha, la perdita di competenze artigianali e l’abbandono dell’autoproduzione e quindi di un proprio gusto probabilmente spiegano perché erano più eleganti i contadini dell’Ottocento degli italiani di oggi.

Ma non voglio essere irrispettosa della tragedia: l’aspetto commerciale ed estetico, davanti a certe cose, passa in secondo piano.

Io continuo a farmi i vestiti da me o al limite a comprarli usati o ereditarli. In passato ho comprato cose fatte in Bangladesh, ma ho smesso da anni. Se guardate il reportage probabilmente smettete anche voi.

12 risposte a “Bangladesh

  1. Gaia
    Allo sfruttamento bieco e brutale di ambiente e degli homo che esso ospita, quello documentato e che si esprime qui nel consumismo del vestiario, si affianca lo sfruttamento bieco e più sottile delle ingerenze buonistiche e umanitarie del razzistico “vi aiutiamo a civilizzarvi”,.
    Ho letto con rinnovato disgusto la campagna Coop sui meloni del Senegal equo-solidali.
    Il danno della globalizzazione, dell’inquinamento religioso (tra le righe dell’articolo di presentazione in Coop Consumatori,stampato su carta,non presente in quello in linea collegato qui sopra, appare ancora una volta un’organizzazione cattolica) comporta la follia dell’importare a km 5700 probabilmente in aereo dei prodotti che possono essere coltivati in Italia se non fosse che gli stessi pidiossini che animano ‘sto ciarpame non fossero poi quelli che hanno contribuito forsennatamente alla distruzione dei campi (di melone) e dell’agrcoltura per il tumore edilizio prima e per il lassismo sul fronte della lotta alle migrazioni di massa che comporteranno, del tutto ovviamente, un ulteriore avanzamento del tumore antropico in Italia e con esso della distruzione di terreni verdi e sistemi biotici e agricoli.

    Il consumismo del vestiario è, peraltro, anche una distruzione estetica, una distruzione della bellezza, Il proprio stile personale non è compatibile con mode assurde il cuii unico scopo è quello di introdurre un’obsolescenza “psicologica” sempre più rapida che sostenga il consumismo.

  2. Molte persone pensano che la Coop sia il supermercato “buono”. Lo è tanto quanto il Pd è il partito “di sinistra”. Al posto del nuovo enorme negozio con parcheggio annesso della Coop, vicino a casa mia, avrei preferito un campo di meloni, direttamente.
    Allo sciopero dell’auto ho aggiunto lo sciopero dei supermercati (e l’idea non è stata mia!), che ormai va avanti da diversi mesi. Forse farò un post dedicato, anche se la questione è piuttosto semplice: compro da produttori locali, cooperative, ortofrutta e negozi biologici. Incredibilmente, sembra che la spesa mensile sia addirittura calata. Ovviamente bisogna fare parecchi giri, c’è chi non ha tempo, e in questo caso aiuta avere altre persone con cui dividersi lo sbattimento di andare in più posti, ma ne vale la pena.
    Non c’è nessun bisogno di far arrivare i meloni dal Senegal, questo è ovvio, solo perché non si può aspettare un paio di mesi finché sono pronti i nostri. Io all’equosolidale di Udine compro solo cose che non si possono produrre in Italia o prodotti italiani o locali.

  3. Il Guardian ha pubblicato anche una versione solo scritta dell’articolo, chiedendo: è colpa dei consumatori occidentali se il Rana Plaza è crollato? È colpa della nostra indifferenza, del consumismo e della fame di vestiti a poco prezzo?
    Le risposte sono molto interessanti, tenendo anche conto del fatto che i lettori online del Guardian rappresentano probabilmente uno spettro abbastanza ampio di nazionalità, età e idee politiche.
    Io penso che non si possa dire che la colpa è solo di una delle parti coinvolte. È evidente che sbagliano tutti qualcosa: dai consumatori che badano al prezzo e non ai diritti umani e all’ambiente, agli azionisti che pensano solo ai profitti, ai manager cinici, ai costruttori di edifici instabili, ai governi che non controllano, ai piccoli e medi imprenditori locali che sfruttano i loro connazionali, ai supervisori loro complici, fino ai lavoratori che accettano queste condizioni per guadagnare di più e sfamare figli che potevano pensarci prima di fare.
    Tutti, al tempo stesso, hanno i loro motivi e le loro giustificazioni. Più che cercare un colpevole, io rifletterei su un sistema e sul ruolo di ciascuno in esso.

  4. Ecco cosa succede, direi per fortuna, dopo qualche anno o decennio di sfruttamento degli operai (notare il pregiudizio crescista dell’articolo). Peccato che si trovi sempre qualche nuovo paese ancora povero da sfruttare. E se e quando saranno finiti anche quelli, temo che ricominceranno il giro, perché i lavoratori europei saranno tornati poveri. Ovviamente spero di sbagliarmi su quest’ultimo punto.
    Nel frattempo, compriamo equosolidale, italiano, ai GAS, alle fiere del GAS, dai produttori… è la resistenza migliore.

  5. Gaia il 18 maggio c’è la festa GAS a Madrisio di Fagagna. Ti ho avvisato…

  6. Grazie dell’avviso 🙂

  7. Una prospettiva diversa sempre su questo argomento. Io continuo a pensare che non può essere il consumismo compulsivo degli occidentali e una catena di sfruttamento a salvare le donne bengalesi da matrimoni precoci e miseria, ma è utile ricordare che dietro a ogni delocalizzazione e investimento all’estero c’è anche una parte di emancipazione per chi lo riceve, per quanto alto il prezzo da pagare.
    Continuo a pensare che la soluzione sia l’autonomia e l’autosufficienza locale, e che ognuno sia responsabile del proprio destino, anche collettivo. Ma certe tradizioni evidentemente sono molto resistenti.

  8. Il problema del globalismo è che si gliobalizza solo il peggio.
    L’entropia è anche nella (in)cultura.
    Ovvero, ad essere precisi, la globalizzazione delle evoluzioni culturali ecologiche, come l’emancipazione delle donne ha tempi molto più lunghi della globalizzazione di sfruttamento, del capitalismo, del consumismo.

  9. Penso sia molto difficile dimostrare il legame tra le due cose, in un senso o nell’altro. Non esistono influenze soltanto negative. Quello che mi fa pensare è: perché in certi paesi le donne ci mettono tanto tempo ad emanciparsi? Perché serve un cambiamento nelle condizioni materiali e lavorative perché migliori qualcosa? D’altronde, una delle grandi domande della storia umana è quale sia il rapporto tra cambiamenti materiali e cambiamenti culturali e sociali, e quale venga prima.
    È innegabile che ogni tanto ci vogliano anche circostanze molto negative per portare un cambiamento positivo. Nella Prima Guerra Mondiale, per esempio, le donne andarono a occupare le fabbriche lasciate vuote dagli uomini in guerra.

  10. E ho appena trovato questo studio secondo cui in India le donne che guadagnano di più, sono più istruite o hanno un lavoro migliore del loro marito sono a più alto rischio di violenza domestica (o meglio, hanno un maggiore rischio di violenza domestica più frequente e più grave).

  11. In India c’è un’antico e mai sopito conflitto tra i due rami dell’induismo, quello vedico e quello tantrico.
    Il primo è fortemente e massimamente patriarcale, misogino e l’ideatore del meccanismo di blocco sociale delle caste. Il secondo ha il culto della Donna (Shakti) come fondamento ed è diffuso tra le caste basse e i sottocasta, retaggio storico, secondo alcuni studiosi, della sottomissione delle culture dravidiche da parte degli ariani.
    Ricordiamoci che nell’induismo vedico la donna era di proprietà del marito e quando il primo moriva la seconda doveva venire arsa viva secondo il Sati, rito funerario.

    Pensi che in una cultura del genere una donna che ha più successo del marito se la possa passare bene!?
    Il Sati fu proibito dagli inglesi. Da un certo punto di vista un esempio di globalizzazione ecologica.

  12. Oggi sono andata a visitare una piccola fabbrica di scarpez, le tradizionali pantofole friulane. Parte del lavoro è fatto da donne che cuciono a casa, quando e quanto preferiscono. Il proprietario della fabbrica ha detto che alcune donne inizialmente interessate sono poi tornate dicendo: mi dispiace, mio marito non vuole che lavori.
    Stentavo a crederci, ma non ho motivo di pensare che non fosse vero.

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