William Morris

Se questo post fosse una lezione, e voi che leggete una classe, inizierei chiedendo: quanti qui sanno chi fu William Morris? (alzino la mano) Forse qualcuno di voi si è interessato dopo che ho detto che avevo letto la sua biografia, ma in generale scommetto che non lo conoscete, perché io William Morris in Italia o da un italiano non l’ho praticamente mai sentito nominare, e va anche bene così, perché non si può sapere tutto e siamo già abbastanza anglosassonizzati, però resta il fatto che Morris non è una presenza nella nostra vita culturale nemmeno ai suoi margini e invece ha anche lui qualcosa da dirci e questo è un ottimo momento per scoprirlo.

La prima volta che ho letto il suo nome è stata a Torino, dove ero andata a vedere la mostra ‘Utopia della bellezza’, dedicata ai pre-Raffaeliti, in cui era esposto un suo quadro, La belle Iseult (Isotta). In realtà Morris non fu un pittore, anche se dipinse e passò la sua vita a disegnare.

Morris fu molto di più, fu moltissimo per un uomo solo, fu poeta, decoratore, artigiano, imprenditore, pioniere del socialismo, editore ed editorialista, attivista, precursore o forse inventore del genere fantasy, traduttore, fu un esperto del Medioevo e il sognatore di un mondo nuovo. Morris creò bellezza per tutta la vita ma, e questo è un fatto raro, dedicò una grande parte delle sue poderose energie a cercare di condividere questa bellezza con ogni singolo essere umano, e in questo sfidò tutto quello che gli stava intorno, tutto quello che la sua società e il suo tempo offrivano: l’alienazione, lo sfruttamento, lo squallore portati dalla rivoluzione industriale, la bassa qualità della produzione di massa, il consumismo, l’avidità della classe a cui apparteneva e al tempo stesso l’aridità delle promesse socialiste, persino la sua famiglia borghese e i suoi amici altolocati che quando lo videro predicare la rivoluzione letteralmente per le strade e inveire contro i suoi stessi ricchi clienti si perplessero e si imbarazzarono, ma non lo lasciarono mai, perché Morris oltre a tutte le altre cose era anche un uomo di compagnia entusiasmante e un grande amico.

Morris, infine, nonostante la sua generosità e il suo idealismo non fu mai del tutto coerente, anzi, e questo rende la sua vita ancora più ricca di spunti.

Io in realtà spero che voi non abbiate mai sentito parlare di William Morris, perché, se siete un po’ come me, la scoperta che sia esistito un uomo del genere, e che d’ora in poi la sua meravigliosa creazione può rivelarsi a voi un pezzo dopo l’altro finché lo vorrete, non può che essere esaltante.

Voglio parlarvi di William Morris per parlare di qualcosa di bello* – tra i tanti argomenti pesanti, tra le tante critiche che pubblico, tra i tanti dilemmi… a me anche tutto questo piace, ma so che a molti pesa, e quindi per cambiare voglio semplicemente celebrare una vita che fu dedicata alla bellezza e alla rivoluzione.

Non è frequente trovare un personaggio che seppe perdersi nella produzione di oggetti bellissimi e poesia sublime senza dimenticare la sofferenza dell’umanità attorno a sé, o che denunciò le ingiustizie del suo tempo e nell’alternativa ad esse propose non solo l’eguaglianza, ma anche i piaceri di tutti i sensi e la meraviglia dell’essere al mondo. Un uomo per cui la bellezza non era né lusso né escapismo, ma essenza stessa della vita, bisogno tanto fondamentale quanto il pane. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino doveva goderne. Per Morris la diseguaglianza e la competizione abbruttiscono non solo gli sfruttati, ma anche i ricchi che di questo sfruttamento dovrebbero godere, e l’unica bellezza possibile è una bellezza accessibile a tutti e non rinchiusa ma visibile, condivisa. A chi oggi dice che ci vogliono i ricchi per costruire cose belle risponderebbe contrapponendo alle ville pacchiane dei capitalisti l’armonia di un villaggio medioevale o l’emozione che provava entrando in una cattedrale gotica, nella costruzione della quale, come notò il suo maestro John Ruskin, ogni singolo artigiano poteva esprimersi individualmente lavorando la pietra secondo il proprio gusto e la propria fantasia.

Vi voglio parlare di William Morris principalmente perché se vi interessa quello che scrivo e faccio forse può interessarvi anche quello che scrisse e fece lui. Nelle sue aspirazioni, nella sua formazione, in quello che mantenne e in quello che rifiutò, nei dettagli, nel modo in cui lo vedevano gli altri, persino nei suoi rapporti e nell’immagine di sé, nei progetti, nella foga, nell’impazienza, nella sfida a tutto… io ho ritrovato qualcosa di me. Quello che sono e soprattutto quello che vorrei essere – e, nel fatto che visse una vita e ne scrisse altre, anche la possibilità di quello che deve ancora venire per noi che siamo vivi. Io non posso fare tutto quello che vorrei; lui potè. Io posso fare di più di quello che sto facendo, e leggere la vita di un uomo simile mi stimola a provarci finché sono viva.

Le cose sono molto diverse ora. Morris visse, come disse lui stesso, “nella città più ricca del paese più ricco nell’era più ricca del mondo”, ed era capitale, ed era il tempo dell’ascesa. Io sono nata in uno degli angoli più ricchi del mondo in un’era ancora più ricca, ma era provincia ed era l’inizio del declino. Questa è una grande differenza, ma rende i suoi progetti ancora più necessari. Noi ora sappiamo e vediamo cose che lui forse non poteva nemmeno vedere, e questo mi rassicura – trovarsi in disaccordo con un grande è sempre un brutto colpo, ma lo è meno se questo disaccordo è parzialmente spiegabile con la distanza temporale.

Nel prossimo post (o in uno dei prossimi) parlerò del suo libro oggi più famoso: News from nowhere.

*In realtà, vi parlo di William Morris perché ho detto che l’avrei fatto se a qualcuno fosse interessato, e a Mauro interessava, quindi adesso sono obbligata

3 risposte a “William Morris

  1. Ciao Gaia,

    grazie anche per questo ultimo post. Riguardo a Morris – a me completamente ignoto – se non ho (presumibilmente) problemi a comprenderlo sulla vita dedicata alla rivoluzione, invece ho molti punti oscuri sulla centralità della bellezza, in particolare quando cerchi di esemplificare con: «.. l’unica bellezza possibile è una bellezza accessibile a tutti e non rinchiusa ma visibile, condivisa.».

    Per me la bellezza è un concetto così soggettivo, che la frase precedente è apparentemente priva di senso. Credo che possa funzionare bene in circoli chiusi come un’accademia, o un consorzio i cui membri condividano gli stessi valori e gli stessi ideali, per cui hanno criteri estetici affini; ma nel mondo universo, creato dalla composizioni di culture così differenti l’una dall’altra, la bellezza accessibile a tutti e condivisa mi sembra un concetto da iperuranio platonico. Faccio un esempio, banale e scontato, ma giusto per intenderci: ricordi il numero di «Le Scienze» in cui si magnificava sulle megalopoli del futuro? Ebbene, per tutta la genia degli urbanisti, le supercittà con tutta la loro ipertecnologia sono oggetti bellissimi, roba da orgasmo, quando ne parlano gli brillano gli occhi. Per me invece sono un pugno nell’occhio, e a volte mi indispettisco anche solo quando vedo piccoli ruderi abbandonati in campagna, che macchiano il paesaggio con la loro presenza. C’era davvero il bisogno di costruirli? Allora quale bellezza dovrebbe essere condivisa: la mia del paesaggio incontaminato, oppure la loro della città futuribile sbrilluccicante di vetri e giardini verticali?

    A me questi discorsi in senso assoluto, dove c’è una parte del mondo che decide cosa sia bello/giusto/etico per tutto il resto dell’umanità, mi puzzano sempre di aristocrazia, fosse solo intellettuale. La bellezza di un laboratorio, non potrà mai essere condivisa con i non addetti ai lavori, che vi vedranno solo un mucchio di apparecchi strani e spesso proprio brutti esteticamente. La bellezza di un’antica biblioteca non sarà mai respirata da chi odia i libri o non ne gode l’immensità. La bellezza di un panorama mozzafiato ti sarà contestata dai tuoi amici non amanti del trekking che ti incalzeranno: e tutta questa fatica per farci vedere ‘solo’ questo? Come si fa a rendere condivisibile la “bellezza”?

    Calare poi questa condivisibilità in un contesto sociale mi pare un azzardo ancora maggiore. Nella comunità dei programmatori ci sono infinite tribù, ognuna delle quali considera il proprio linguaggio bellissimo (proprio in senso estetico). Ognuna di esse venera la bellezza del proprio linguaggio, e se vuoi farteli nemici, la cosa più facile da fare è dire che il tuo linguaggio rende meglio un design pattern del loro. Quale è la vera bellezza in questo caso? Se pure ve ne fosse una, come fare a farla accettare universalmente tra tutte le tribù come «…unica bellezza accessibile a tutti e non rinchiusa ma visibile, condivisa.» ? Per me è una cosa impossibile, avresti subito tutti contro, ti vedrebbero come un oligarca. E se dicessi che la loro bellezza non è veramente tale, perché non è aperta e condivisibile, ma locale e contestuale a quel gruppo, ti considererebbero una provocatrice iconoclasta.

    Io credo di aver capito cosa lui volesse dire, però mi sembra molto un discorso utopico, troppo utopico per essere calato nella realtà. La bellezza, molto spesso, è l’estremo opposto della bruttezza; e, parafrasando il celeberrimo incipit tolstojano, «Tutti gli archetipi belli si somigliano; ogni archetipo orribile è invece brutto a modo suo». Se partiamo dalla specificità della bruttura in ogni cultura, ne conseguirà che al suo estremo opposto ci sarà una bellezza altrettanto specifica per ciascuna cultura. Così ciò che è bello per un tuareg, parrà orribile e assurdo ad un nord-americano.

    Insomma: avere una propria visione del mondo, anche se bellissima rispetto a quella degli altri, non mi sembra un motivo valido per imporla agli altri. Questi discorsi andavano bene quando c’erano le “culture egemoni” e gli “imperi coloniali”; io credo si possa sempre imparare a conoscere – pure la bellezza – anche da subculture di piccole minoranze, però se lo scambio avviene su di un livello paritario.

    Augh! (come nei fumetti di Tex Willer)

    mk

  2. Non voglio anticipare troppo, perché sto preparando un riassunto più approfondito del suo libro (per come l’ho recepito io) e spero di pubblicarlo presto, però in parte hai ragione, nel senso che Morris inveisce contro quello che per LUI è brutto e loda quello che per LUI è bello, e sotto sotto pensi che forse sta anche esagerando. Al tempo stesso, nella sua utopia tutti sono creatori e artisti, e se ci sono questioni di gestione dei beni collettivi, anche estetiche (come facciamo il ponte?), queste vengono prese a maggioranza dopo approfonditi dibattiti, quindi sostanzialmente la bellezza per lui è quella che viene dalla creazione felice di un individuo realizzato nel lavoro che ha liberamente scelto. Ed è difficile dargli torto: io non ho mai visto una cultura autenticamente popolare che non fosse bella. Sono belli i tuareg, sono belli i costumi folk europei e i nostri villaggi medioevali, sono belli i vestiti indiani, le moschee antiche, i vecchi paesi alpini, le tende dei nativi americani, i trulli… persino le sottoculture autentiche possono essere belle: i punk, gli hippy hanno una loro bellezza, anche se non tutti la recepiscono. Lo stile americano, che tanto spopola anche qui tra i giovani, è orrendo in Italia, nella sua versione sradicata e annaquata, ma ci sta nelle metropoli degli Stati Uniti e in quei film in cui tutti ballano che a me piacciono tanto. Lì è bello. Qui non c’entra niente ed è brutto. Come sarebbe brutto un rapper con i pantaloncini di cuoio con le stelle alpine, che invece quassù stanno benissimo.
    Quando una forma di espressione è nata da un ambiente locale, è genuina, e deriva dalla tradizione e dalla libera espressione delle persone, anziché da modelli adottati per conformismo e mai capiti, è impossibile che sia brutta. Il brutto è il globale, l’imposto, la villa dell’arricchito, il grattacielo che non c’entra niente…
    Naturalmente, anche questa mia risposta è problematica, ma in fondo in fondo la maggior parte della gente secondo me i grattacieli futuristici non li vuole – perché quando va in vacanza va a Venezia, a pedalare nella campagna olandese, sulle spiagge di Bali, nelle Cinque Terre… non certo in centro a Milano.
    (Sì, si va in vacanza a New York – ma i grattacieli a New York fanno parte della sua storia e, anche se a me nemmeno lì piacciono, hanno un senso che in altre città con un’altra storia non possono avere)
    L’esempio del laboratorio secondo me non calza: un laboratorio non è costruito per essere bello, ma funzionale. I laboratori dell’Ottocento forse erano belli, ma quelli di adesso no, e sfido qualsiasi scenziato a sostenere che lo sono. Magari a lui piacciono, come a ognuno piace quello che gli ricorda qualcosa di piacevole, ma non sono certo un esempio di bellezza. Magari lo fossero; magari si pensasse anche alla bellezza quando vengono costuiti! Ma i criteri della nostra era sono la funzionalità e il risparmio, e questo Morris vedeva e aborriva.
    Riguardo ai programmatori, non ne so abbastanza; ipotizzo solamente che il problema in questo caso non si ponga, perché non si tratta di imporre un linguaggio in assoluto su tutti gli altri (Morris non diceva questo), ma di lasciare ognuno libero di produrre quello che preferisce secondo il proprio gusto, così come se ognuno si veste con grande cura difficilmente il risultato d’insieme sarà spiacevole, anche se magari i pantaloni di Tizio hanno un colore più bello di quelli di Caio.
    E tornando al punto di partenza: i disegni di Morris sono utilizzati ancora, dopo centocinquant’anni, e le sue opere e persino le sue collezioni rimangono come esempio di artigianato di alto livello. Il suo gusto non sarà universale, ma se nessuno l’ha mai ripudiato un motivo ci sarà.

  3. Riguardo ai laboratori, ti segnalo che con tutti i soldi che drenano alle finanze pubbliche, hanno deciso anche di renderli più ‘cool’ (ovviamente secondo i loro canoni estetici). Io comunque non mi riferivo a ciò, ma a quella peculiare qualità della mente umana che ci fa apparire esteticamente bello qualcosa per il solo fatto che l’amiamo (ho ascoltato una volta con le mie orecchie un meccanico osannare la bellezza di fronte ad un motore, che a me pareva solo un indecifrabile ammasso di bielle, cinghie e ruote di trasmissione). Eppure alcuni grandi complessi scientifici sembrano davvero delle installazioni di arte moderna (la musica e i sottotitoli del video sono davvero pessimi, scusami), e quand’ero ragazzo uno dei miei sogni era di lavorare in questo posto, che continua a parermi molto bello, nonostante tutto. Probabilmente i simboli hanno un loro peso nella nostra percezione della bellezza, anche se non ce ne accorgiamo. La bellezza come promessa di felicità, come scriveva Stendhal.

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